In memoria di un poeta
Ricordo di Neiwiller
A vent'anni dalla morte, Napoli, Roma, Salerno e Caserta rendono omaggio a un grande del teatro che con gli strumenti della scena e della poesia aveva anticipato il naufragio dei nostri giorni
Sono passati vent’anni dalla morte di Antonio Neiwiller. Vent’anni sono tanti: una vita, come si dice. Ma questi vent’anni trascorsi dal 1993 a oggi sono più di una vita; sembrano un evo storico. Al punto che ci riesce difficile, oggi, ripensare e soprattutto penetrare il segreto dell’anima di una generazione che fondava la propria coscienza su principi e valori che prima non esistevano e oggi non esistono più. Antonio Neiwiller era un grande poeta di quei principi e di quei valori: tanto che ci sembra molto più lontano dei vent’anni che ci dividono.
Oggi a Napoli (alla Sala Assoli) e domani a Roma (al Teatro Vascello), con l’aiuto di due benemerite “istituzioni” (Teatri Uniti e Le Vie dei Festival), dal 21 novembre a Salerno (Teatro Ghirelli) e dal 29 novembre a Caserta (Teatro Civico) si tengono degli omaggi scenici a Neiwiller: sarà un modo non solo per ricordare l’uomo di poesia e di teatro, ma anche – spero – per recuperare il senso della sua utopia. Un senso che abbiamo completamente smarrito. Se volete che ve lo dica con parole semplici (siamo nel tempo delle parole semplici, quasi banali), eccole: fino a vent’anni, trent’anni fa si faceva arte pensando che fosse necessaria per migliorare il mondo. Perché (udite udite) si pensava che il mondo dovesse essere migliorato. C’erano già gli assessori (che promuovevano l’arte per migliorare la propria quota di potere, e basta), c’era già l’intrattenimento commerciale (che si occupava di migliorare solo il proprio portafoglio), ma c’era spazio anche per gli interessi comuni. Antonio Neiwiller faceva teatro perché pensava che la poesia scenica avrebbe migliorato le persone. Gli anni Ottanta a Napoli sono stati molto difficili (non c’era nemmeno la mitizzazione rituale di Scampia e simili) ma in città giravano molti “pazzi” che ritenevano di poter migliorare il paesaggio dell’anima urbana con un lavorìo di poesia sotterranea.
Anzi, a essere ancora più chiari: fino a venti, trenta anni fa si pensava che conoscere e avere curiosità culturali fosse un valore. I più gretti magari pensavano che fosse un valore fine a se stesso, ma gli riconoscevano una funzione. Adesso, come sappiamo tutti, l’onda del profitto, del cattivo gusto, dell’assenza di limiti e vergogne ha travalicato gli argini e siamo tutti sommersi. Più o meno felicemente, con un bel telefonino davanti agli occhi, un paio di cuffie nelle orecchie, un grattaevinci in mano e il buio nel cervello. Ha vinto il capitalismo, avrebbe detto Neiwiller. Ecco un’altra differenza: allora la politica era una cultura diffusa e condivisa, era uno strumento usato per capire, per migliorare e per accrescere il senso di responsabilità (personale e collettiva di fronte alle persone e alla collettività).
Vabbè, è andata come è andata.
Ho conosciuto Antonio Neiwiller sulla scena. Il che non sarebbe una notizia, visto che era (anche) attore: salvo che sulla scena c’ero io, spettatore di professione. Mi ci aveva portato lui, di forza, prendendomi dal pubblico che assisteva a uno spettacolo nel quale recitava. Si chiamava Karl Valentin Kabarett, era uno spettacolo di Renato Carpentieri nel quale veniva letteralmente riscoperto (ora è un classico, ma all’epoca era assolutamente ignoto!) il grande comico tedesco, cugino poetico del nostro Petrolini. Serviva coinvolgere uno spettatore in scena e Neiwiller, ovviamente senza sapere chi fossi né perché fossi lì, mi venne a prendere e mi fece fare la figura dello scemo in scena. Eravamo a Roma in una sala che non c’è più, si chiamava Teatro in Trastevere. Doveva essere il 1979 o il 1980. Forse per questo tra noi rimase un legame lungo e saldo, per quanto mantenuto a distanza.
Immaginate un attore/poeta/regista di vocazione onirica, molto beckettiana, alle prese con un genio della risata grassa e sboccata come Valentin! Eppure lui non sfigurava: aveva messo in quello spettacolo di Carpentieri la sua curiosità, la sua voglia di farsi palombaro nelle antiche avanguardie. Ma Neiwiller non era nato per fare il palombaro. E poco dopo prese a correre da solo. Ricordo un altro suo spettacolo degli esordi, Anemic Cinema, ancora rivolto all’esplorazione delle avanguardie storiche. Ricordo la ripresa di un singolarissimo omaggio a Petito… ma ricordo soprattutto uno degli spettacoli che più mi hanno formato: Titanic, the end, che rielaborava (molto) un testo di Hans Magnus Enzensberger. Era il 1983: a Roma Neiwiller lo mise in scena in un posto che si chiamava Convento Occupato e che non mi ricordo più nemmeno dove fosse: questa città ormai è tutta una geografia di spazi culturali perduti. Ma ricordo quella sfilata di teste che si stagliavano nel buio e che soffiavano dalla bocca i segni di una società che stava finendo sott’acqua, azzerando sogni, illusioni, passioni. Una premonizione: eravamo noi, noi di oggi, travolti dall’onda di cui ho detto poco fa. I poeti sono così: vedono in anticipo. E la fine della stagione della cultura, della curiosità, della conoscenza e del rispetto cominciò allora, nel 1983. Noi non ce ne siamo accorti e il grido di dolore di Antonio Neiwiller rimase inascoltato. Non bastarono neanche altri straordinari spettacoli che vennero poi. Ricordo almeno: Storia naturale infinta (un canto memorabile dedicato a Paul Klee) e l’ultimo, L’altro sguardo. Chi li ha visti non li avrà dimenticati.
Se non fosse stato per Mario Martone e Toni Servillo (altri due grandissimi, astri nascenti allora), se non fosse stato per quella straordinaria scommessa poetica e politica che fu Teatri Uniti (per chi non lo sapesse, una compagnia nata da tre compagnie, quindi secondo le regole della burocrazia teatrale di allora destinata a veder ridotti i propri contributi di due terzi…), oggi non staremmo qui a parlare del genio amaro di Neiwiller. Perché Roma, per esempio, con lui non fu mai generosa. Non quanto avrebbe dovuto essere, almeno. Ecco, per capire che uomo fosse Neiwiller, guardate la foto qui sopra: Mario Martone e Toni Servillo guardano in macchina, Neiwiller no; punta gli occhi altrove. Un misto di timidezza e attenzione all’altrove.
Ora gli si rende omaggio ed è non un bene ma di più! Perché l’urlo che non abbiamo ascoltato all’epoca, forse dovremmo ascoltarlo oggi. E riverberarlo, come un’eco costante del naufragio che abbiamo fatto sorridendo, spolverando i musei della rivoluzione o raccontandoci barzellette sconce.