La testimonianza di Etty Hillesum
Lettere dall’Olocausto
Adelphi pubblica la versione integrale delle missive dal campo di transito di Westerbork della giovane martire olandese. Un inno alla vita nonostante l'orrore, fino a quell'ultima cartolina gettata dal treno per Auschwitz: «Apro a caso la Bibbia: Il Signore è il mio alto ricetto…»
Benigni ha vinto l’Oscar raccontando di un padre che inventa una seconda realtà nel lager per attenuare terrore e dolore del figlio bimbetto rinchiuso con lui. La vita è bella anche in un campo di sterminio, il paradosso e la finzione cinematografica del regista toscano. Ma a scrivere – nel suo diario e nelle lettere dalla prigionia imposta dagli SS – che in fondo il cielo azzurro della notte, seguito al rosso del tramonto, allarga l’animo anche se lo si guarda attraverso il filo spinato, è stata una persona davvero esistita, una singolare intellettuale che ad Auschwitz è morta con il padre, la madre, il fratello, nel novembre del 1943, giusto 70 anni fa. Si chiama Etty Hillesum, figlia di un professore di lingue classiche, famiglia colta e benestante di Amsterdam. Aveva 29 anni quando si spense per sempre la sua voce, uscita per l’ultima volta dalle baracche nella brughiera polacca.
Una martire dell’Olocausto speciale, questa ragazza che ad Amsterdam viveva con i suoi nella casa prospiciente il Rjiskmuseum, che si beava a sentire il fratello Mischa suonare divinamente il pianoforte, che aveva cominciato a studiare, dopo la laurea in legge, la psicologia analitica junghiana, una specializzazione interrotta, come tutto il resto, dalla guerra. Una martire speciale perché Etty non sarebbe dovuta finire internata. Ma che lo fu per propria scelta, accollandosi una missione di aiuto, conforto, sostegno non solo ai propri consanguinei (genitori e fratelli se li portarono via sul solito vagone per l’ignoto i nazisti), ma anche per gli altri deportati, diventati suoi familiari per volere o insulto del destino. Hillesum infatti, in qualità di dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico, avrebbe avuto la possibilità di salvarsi (anche se per nessuno, ebreo, potevano esserci certezze). Invece scelse di entrare come assistente sociale nel campo di transito di Westerbork, in Olanda. Campo di transito, appunto. Perché nel settembre 1943 gli Hillesum furono condotti ad Auschwitz per la soluzione finale.
Proprio da Westerbork uscirono le sue lettere, il quotidiano racconto della prigionia con sprazzi di ottimismo alternati alla lucida descrizione, agli amici e parenti che erano “fuori”, della vita nelle casupole. E questi fogli minutamente vergati costituiscono il corpus delle Lettere in edizione integrale appena pubblicate da Adelphi (266 pagine, 22 euro). Molte sono cartoline postali, capitoli di un fervido poema che la ragazza ebrea compone indefessamente, per non spezzare il filo con gli affetti che stanno oltre il campo. Lei dentro media la sofferenza e perfino i rancori che dividono internati olandesi ed ebrei. Sa volare alto, a veder brillare l’Orsa Maggiore, ma anche gustare un pezzo di pane, un dolce arrivato in un pacco salvifico, almeno per una giornata. A scansare la febbre e la dissenteria che tormentano tutti, nel campo, anche perché «i panni si lavano senza lavarli davvero», tanto precari sono i mezzi per farlo. A trovare la forza di tirarsi su.
Scrive il 6 luglio ’43 all’amica Milli Ortmann: «Oggi per la prima volta ho avuto un breve cedimento e sono svenuta nel mezzo di una grande baracca. Sono stati di nuovo giorni pesanti. Stamattina è partito un altro convoglio di deportati e ho faticato a tenere i miei genitori fuori dal treno, è una grande disperazione». E però si va avanti, consolati magari, due giorni dopo, da un plico: «Christine, quel dolce di Gronigen! Era una cosa principesca. Tutto il pacco era meraviglioso. Subito ho portato a papà qualche fetta di dolce e una mezza stecca di cioccolato. È un sistema così simpatico: corro da lui – sono cinque minuti dalla mia baracca -, gli passo qualcosa attraverso la finestra e corro indietro… Nel frattempo è arrivato un altro pacco dal Consiglio Ebraico di Deventer, con ottime pagnottelle di segale di Gantvoort. Ne do sempre la metà alla mamma, che pensa a Mischa; l’altra metà la tengo io e mi occupo di papà…».
Altrove il canto si allarga: «Volevo solo dire questo: la miseria che c’è qui è veramente terribile. Eppure la sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce – non ci posso fare niente, è così, è di una forza elementare – e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo».
Ma gli eventi precipitano, forse anche perché la madre di Etty, fiera del figlio musicista, osa scrivere una lettera per chiedere una certa libertà di movimento nientemeno che a Rauter, il capo della polizia SS. Commenta sarcastico l’avvocato Stokvis, amico degli Hillesum: «L’incarnazione dell’eroismo ariano, le cui dita sono state lordate dal contatto con quel pezzo di carta: Inconcepibile, orripilante, un crimine! Spedire immediatante a Est!». Il telegramma arrivò pochi minuti prima della partenza del treno da Westerbork, direzione Auschwitz. È il 7 settembre. Etty getta da quel treno l’ultima cartolina: «Apro a caso la Bibbia e trovo questo: Il Signore è il mio alto ricetto. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato per noi dall’Aja. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà a mamma molto forti e calmi, e così Mischa (…) Arrivederci da noi quattro».