Il nostro inviato a Roma
L’ambientalismo horror
"The Green Inferno” non è solo il titolo del film di Eli Roth, ma anche un gioco di parole: meglio tutelare le culture primitive o esserne divorati? Ecco un dilemma difficile da risolvere
Vedendo The Green Inferno di Eli Roth ci siamo inorgogliti una volta di più per il nostro cinema di genere che non smette di essere copiato e riciclato. Chiedere a Umberto Lenzi e Ruggero Deodato, e magari anche a Michele Massimo Tarantini le cui pellicole hanno di fatto costituito l’humus sul quale si è sviluppato il film di Roth. Deodato in particolare si è risentito accusando il sodale di Tarantino di plagio indicando Cannibal Holocaust e Ultimo mondo cannibale come oggetto di concupiscenza cinematografica. In verità Eli Roth è andato oltre, affermando di essersi ispirato, pensa tu, a The New World di Terrence Malick.
Al netto di tutte le polemiche destinate a tornare di moda quando il film uscirà, The Green inferno è la storia di un gruppo di ambientalisti che, per impedire l’estinzione di una tribù peruviana, si scaglia contro le ruspe e i para militari che sorvegliano i lavori. Tutto sembra andare bene ma durante il viaggio di ritorno il piccolo aereo da turismo che li sta riportando verso la civiltà precipita nella foresta. Alcuni ci lasciano le penne, e chi non avrà avuto la fortuna di morire nello schianto, si troverà ad affrontare la ferocia cannibale dei tagliatori di testa, che poi sono la tribù inerme che avrebbero dovuto difendere. Da qui in avanti non possiamo dirvi altro, se non che ai poveracci, o presunti tali, accadrà di tutto fino all’epilogo che metterà di fronte lo spettatore al dilemma: meglio i mercenari e le società che distruggono le foreste o i tagliatori di testa fuor di metafora?
Il genere horror, e non c’è dubbio che il film di Roth vi appartenga, racconta spesso la società in maniera più semplice e immediata di molti film impegnati, che in realtà rendono difficoltoso per lo spettatore non addormentarsi. Si dirà che la grana è grossa, e questo è innegabile, ma ogni tanto si può mangiare anche un panino con la porchetta. Oddio, come metafora, considerato il film, non è la più azzeccata. O forse sì…
La nostra giornata al Festival Internazionale del Film di Roma è poi proseguita con il noiosissimo Patema Inverted. Nomen omen, perché assistere a questo film d’animazione è stato davvero un patema d’animo. Purtroppo Yasuiro Yoshiura non è Miyazaki e si nota. Ciò che però è stato davvero notevole, durante tutto l’arco della proiezione, è stato il vociare sguaiato e maleducato dei ragazzi (non bambini) in sala. Ricordiamo che il film era nella sezione Alice nella città. Immaginiamo che agli organizzatori non sarà sfuggito il fastidio che gli astanti più adulti hanno dovuto subire. E quando qualcuno si è azzardato a chiedere un po’ di silenzio è stato bellamente azzittito da sonore bordate di fischi. A questo punto non sappiamo davvero chi compatire (genitori, insegnanti, i ragazzi stessi?). Perché se è vero che quando i giovanotti sono in gruppo (branco) aumenta l’irresponsabilità e la sensazione di onnipotenza, ma questa sensazione di violenza latente che pervadeva la sala è qualcosa di terribile. Senza stare a fare paragoni con il passato è evidente l’immunità di cui consapevolmente godono questi simpatici urlatori. O forse, semplicemente, hanno trovato il film brutto. Ma allora, se proprio dovete mettervi a fare i maleducati in sala, preparatevi bene: diventate almeno giornalisti.