A proposito di politiche teatrali sbagliate
Le lobby del teatro
Occupazione del Valle o no, il problema del teatro italiano è che è gestito da una lobby. Una sola. Mentre ci sarebbero anche altri artisti, altre idee, altre tendenze creative da sostenere.
In molti si chiedono: se il guaio del teatro a Roma è l’occupazione del Valle, vuol dire che tutto il resto va bene? Ho già scritto qui (clicca per leggere) che si parla molto dell’appropriazione indebita di quel teatro anche per tacere i guai di tutti gli altri. Poi ho anche detto quello che penso dell’occupazione del Valle in senso stretto (clicca qui per leggere), quindi mi sento libero, ora, di affrontare altre questioni che affliggono la politica teatrale in Italia nel suo complesso. Lasciando in pace il Valle occupato, per una volta.
Il teatro in Italia è in mano a una lobby, dove lobby è un termine quasi nobile, perché in realtà bisognerebbe usare una parola molto più dura. Ma comunque chiamiamola lobby. La stessa, immobile, non del tutto creativa, da qualche decennio. Mi occupo di teatro da trent’anni e da sempre ho visto nei posti chiave (istituzioni, teatri stabili, circuiti, consulenze dei teatri privati) la stessa cerchia di persone. La prima generazione ha lasciato il passo alla seconda e una terza adesso comincia a farsi avanti: sono persone sodali tra loro; hanno una visione comune della politica teatrale da seguire e non sono propriamente dei cattivi operatori culturali (hanno un’idea e la vogliono difendere e promuovere), salvo che altre idee, altre tendenze, altri stili di produzione (facile far spettacoli con milioni e milioni di euro in tempi di crisi!) non hanno cittadinanza. Vengono affogati sul nascere. Il problema è tutto qui. riguarda gli esclusi (oltre a qualche incluso di basso profilo…)
Volete i nomi? Non ho paura: la prima generazione era quella di Walter Le Moli, Roberto Bacci, Franco Ruggieri e Bruno Borghi. Ottimi organizzatori. Ma non esaurivano tutto il panorama della cultura teatrale italiana: altri bravi in giro ce n’erano e non avevano spazi, né incarichi, né teatri pubblici né circuiti pubblici (né soldi pubblici, dunque) da gestire. Per esempio: ora sono “teatralmente” ai margini, ma qualcuno ricorda Bruno Mazzali, Marcello Sambati o Pippo Di Marca? Non meritavano meno di quegli altri. A contrastare i vincenti dell’epoca c’erano solo i “socialisti” (definizione che allora si usava sempre con un certo disagio) che facevano capo a due personaggi affatto diversi: Maurizio Scaparro e Alfredo Balsamo, un regista e un organizzatore. Anche in questo caso, figure di spicco, salvo che anche loro si dividevano un po’ troppi soldi pubblici. Anzi, a essere sinceri se ne dividono parecchi anche oggi…
Poi è stata la volta della seconda generazione: sotto la benedizione critica di Franco Quadri e quella politico/salottiera di Roberta Carlotto (uno degli equivoci più singolari e incomprensibili dell’Italia culturale del secondo Novecento), hanno imperato nel nostro teatro figure importanti come Giovanna Marinelli, Pietro Valenti, Sergio Escobar o Giorgio Barberio Corsetti. Anche qui: tanto di cappello (benché i livelli siano diversi). Ma, volendo, c’era anche altro in giro. Ricordo quando Walter Veltroni divenne ministro della Cultura (era il 1996). Qualche tempo dopo gli chiesi come mai avesse affidato a scatola chiusa il teatro pubblico italiano a queste persone. Mi disse: me le segnalò un certo Walter Le Moli, il primo che mi venne a trovare al ministero. Mi avevano detto che era il migliore sulla piazza. Appunto.
Il vuoto critico aperto dalla morte di Franco Quadri ha dato il via a una lotta per la successione senza esclusione di colpi. Non dentro i giornali – ché i quotidiani ormai non danno più alcun peso al teatro e le dieci righe che una volta alla settimana Repubblica dedica al teatro non bastano a fare lobby e potentati – ma fuori, nella gestione del gruppo di pressione che comanda e dirige il mercato pubblico (compresi i contributi del Fus) del teatro italiano. E mi sembra che il miglior erede di Quadri (nel senso della consapevolezza critica e della forza lobbistica) sia Oliviero Ponte di Pino; figura di primissimo piano che, come tutti i critici di tendenza, è ricco di preconcetti, positivi e negativi. Sul fronte degli organizzatori, invece, brilla la stella di Ninni Cutaia, ex direttore generale dell’Eti spazzato dall’abolizione dell’Ente Teatrale Italiano, poi molto attivo nelle prime settimane dell’occupazione del Valle e ora comodamente sistemato tra i dirigenti del ministero dei Beni Culturali. A quanto sento dire, la sua candidatura è la più accreditata alla direzione del Teatro di Roma al posto di Gabriele Lavia (che comunque venderà cara la pelle). Cutaia farà sicuramente bene, garantendo soprattutto amici e sodali.
Non parlo di figure mediocri, ma potentissime, come Luca De Fusco, Renato Quaglia, Tato Russo o il fu Pietro Carriglio (fu nel senso che dopo un millennio è stato estromesso dal Biondo di Palermo) o simili, perché le loro storie, le loro resistibili ascese si commentano da sé. Dico mediocri, a scanso di equivoci e querele (diritto di critica, ne ho i titoli), in senso culturale: magari sono anche brave persone… io non li conosco personalmente. Il problema del teatro italiano non sono i mediocri isolati che grazie a una buona sponsorizzazione politica (di destra o di sinistra che sia) riescono a racimolare un po’ di potere da sbattere in faccia agli altri; il problema del teatro italiano non è neanche nella sapiente lobby che lo governa (con il beneplacito di oppositori interni prima del Pci, poi del Pds, poi dei Ds, ora del Pd, caso unico nella storia di un partito che si fa estromettere dall’interno!): il problema è che non esiste pluralismo di voci. Che ci sono troppi esclusi, troppi dimenticati. Troppi bravi teatranti di cui non sappiamo nulla perché non passano per i salotti o le segreterie telefoniche che contano. I “vecchi” sono andati, ma escludere i nuovi è deleterio per un teatro in profonda crisi di idee e identità come il nostro.
Qualche giorno fa Riccardo Caporossi ha scritto una dolente lettera a Succedeoggi (clicca qui per leggerla) sul fallimento dell’occupazione del Valle. Ebbene, la prima cosa che ho pensato, quando l’ho vista nella mia casella di posta, è stata: ma perché a Remondi e Caporossi vent’anni fa non hanno dato da dirigere un teatro pubblico? Perché lo Stato (ossia tutti noi) ha dato contratti, consulenze, festival e altre meraviglie a Barberio Corsetti e a Rem&Cap no? Che hanno fatto di male Rem&Cap? E che cosa ha fatto di memorabile (che io purtroppo non ricordo) Barberio Corsetti? Ma sono nomi (quasi) a caso, perché dozzine altri se ne potrebbero sciorinare. Per dire: perché a Gigi Proietti Veltroni sindaco di Roma ha concesso una convenzione per gestire il Brancaccio (l’antica voce seconda la quale Proietti avrebbe avuto del denaro comunale per la promozione della sala mi è stata recisamente smentita dall’attore!) e a Rem&Cap non ha dato neanche uno straccio di cantina? A loro come a dozzine di altri teatranti che nel frattempo sperimentavano nuovi linguaggio tanto da meritare sostegno pubblico. Mah!
La verità è che alla classe politica italiana che gestisce la cultura come un mezzo per ottenere visibilità e successi (la cultura è un fine, non un mezzo), del teatro non frega nulla e dunque per chi sta nei ministeri, nei municipi o nelle direzioni di partito è infinitamente più comodo promuovere chi si propone bene, chi si sa mettere bene in mostra. E magari non romperà troppo le scatole, poi. Ma non sempre chi si mette in mostra è il migliore. Non solo: dietro a chi si mette in mostra c’è il grosso, c’è la maggioranza degli artisti che invece lavorano nell’ombra, nel silenzio, nell’ostracismo, spesso nella povertà assoluta. Io sto con loro. E mi piacerebbe che le istituzioni aiutassero (anche) loro. Ché non solo ne hanno più bisogno, ma forse offrirebbero alla cittadinanza (alla quale pur sempre le istituzioni e la politica dovrebbero rispondere) qualcosa in più di un Ibsen noioso, di qualche cazzata ispirata a Via col vento, di un delirio di presunti matti o qualche idiozia giovanilista e colorata nel fresco estivo di Villa Borghese.
Ma queste sono opinioni. Nelle prossime puntate, proveremo a raccontare anche qualche fatto.
Le foto dall’alto: il Teatrino Scientifico di Via Sabotino, a Roma, progettato da Franco Purini nel 1979 e subito distrutto (ovviamente!); poi Walter Le Moli, Roberta Carlotto, Ninni Cutaia e Luca De Fusco.