Ilaria Palomba
Parla la performer Angélique Cavallari

L’arte dell’instabilità

«La performance in sé è effimera. Ma proprio per questo, e grazie alla sua immediatezza, consente di arrivare molto più in profondità». Parla una protagonista di un'arte molto particolare

Ho conosciuto Angélique Cavallari durante il mio anno di ricerca sulle arti performative a Parigi. Ero al Théâtre de Verre quando ho visto H (con la regia di Stefano Odoardi). Una donna di una bellezza manga, molto magra, occhi chiari, grandi, allungati dal trucco scuro, vestita di nero, aderente, fetish, con stivali borchiati, tacco a spillo e zeppa, si posiziona dinanzi a un microfono, un paio di cuffie alle orecchie. Per oltre venti minuti compie movimenti che ricordano passi di danza contemporanea, ma sono in realtà movenze di un disequilibrio che cerca l’equilibrio, nel più completo silenzio. Poi si avvicina al microfono e pronuncia delle parole che sembrano essere frutto di libere associazioni di pensieri, come: silenzio, acqua, solitudine. Infine toglie le cuffie e le poggia sul microfono abbandonando la scena. Il pubblico ascolta ciò che proviene da quelle cuffie: sono degli Haiku, da cui lei aveva estrapolato in un primo momento dei movimenti e, in un secondo, delle parole. Un esperimento di una raffinatezza minimale, il corpo che si fa poesia, la poesia che attraverso il corpo viene fuori come espressione di sé nel mondo. Il corpo che abbandona la scena e il microfono che parla per sé, la poesia che parla per il mondo, che si fa mondo e senso, rivelandosi e svelando la vita, nella sua minimale essenza, malinconica e misteriosa.

Incontrandola ho scelto di intervistarla sui concetti che l’hanno guidata nel suo lavoro interiormente ed esteriormente.

foto1 Angelique Cavallari foto di Karlina VitolinaEFFIMERO: «La performance in sé è effimera, si tratta di un atto unico, solo e irripetibile, a differenza del teatro la performance non ha un palco, sei unito dalle energie dalle persone dal luogo in cui sei. Puoi fare delle prove ma non saranno mai quello che accade il giorno in cui accade. Il concetto di effimero l’ho esplorato soprattutto in una performance intitolata L’effimero e il grano, fatta per strada a Parigi, al quartier Marais. Indossavo una parrucca bionda, mi sono cucita un vestito dorato, portavo dei tacchi altissimi e una borsa in finta pelle, volevo dare da un lato l’idea del fashion dall’altro della semplicità della natura. Erano le 11 del mattino c’era una luce molto bella volevo ricreare un ambiente onirico. Ho bloccato il traffico nelle strade del Marais, ho messo per terra, sull’asfalto, una striscia di terreno che in una città come Parigi ha un effetto destabilizzante. C’era questo musicista Nicola Linfante, è un polistrumentista italiano che fa sperimentazione. L’ho chiamato dicendogli che avevo bisogno di una situazione con un ritmo aritmico e onirico. Con i tacchi facevo dei buchi nel terreno, richiamando un’antica pratica delle contadine francesi, che con delle scarpe con una specie di tacco quadrato camminavano sul terreno, facendo dei buchi nella terra per renderla fertile. È una nascita e una morte, una nascita e una morte. Quindi dopo ho estratto dalla borsa delle pannocchie di cartone, le ho piantate nel terreno, ma non delle pannocchie vere, delle pannocchie di cartone, calcando in tal modo ancora più sull’effimero. Poi la performance si è conclusa con una fuga, io e il musicista siamo scappati ed è rimasta questa installazione per strada che è diventata poi la vera performance, perché la gente ha reagito in un certo modo, è arrivato un addetto che ha cercato di pulire però poi ha capito che si trattava di un’installazione. Qualcuno si é portato a casa la pannocchia di cartone (così l’effimero ha preso corpo). Quest’idea andrà avanti in altro modo, ci sto lavorando ancora. L’effimero è quel momento che stai vivendo e tra un attimo non ci sarà più. Quindi l’effimero e il grano, l’effimero e il cibo ed è in effetti qualcosa che ci nutre in ogni momento. Anche se parliamo di dolore, se non avessi quei momenti di effimero, quel qualcosa che accade, che vive oltre te e ti riporta alla vita, alla realtà».

DONNA. «Ho scoperto la donna attraverso il teatro perché in teatro le donne hanno dei caratteri ben delineati quando le studi ed é un modo più chiaro. Come donna potrei essere molo arrabbiata, come donna che vive nel quotidiano, perché vedo e sono cosciente di ciò che accade ma secondo me non serve, bisogna agire. In quanto donna trovo questa congiunzione tra logica e follia. L’integrazione tra l’uomo e la donna è qualcosa che può esistere, con le sue dinamiche naturalmente».

POTERE. «Le dinamiche di potere sono una cosa molto interessante da esplorare ma trovo siano facilmente destrutturabili perché se tu con la tua onestà intellettuale, arrivi ad essere in pace con la tua verità, la dinamica del potere riesci a disintegrarla. Ho fatto una performance che tocca anche le dinamiche di potere: Photo Live Paris 23 per Crispin Gurholt, famoso artista norvegese. La scena era popolata da una prostituta misogina, che è una mistress (interpretata da me), vicino a lei c’è un ragazzo molto efebico, poi c’è una macchina lussuosa e l’autista che preleva dei soldi al bancomat. Eravamo in pieno centro di Parigi, siamo stati immobili per un’ora e mezza, con la stessa intensione, un’ora e mezza di immobilità assoluta. Lì il lavoro sul corpo è fondamentale, lavori sui meridiani, devi sviluppare la capacità di essere immobile».

PAZZIA. «Se parliamo di disequilibrio, be’ questo non ha a che fare sempre con la pazzia. Quel tipo di disequilibrio che esperivo in H è un qualcosa che osa e che poi ti permette di tornare in equilibrio, ha un valore positivo che va a destrutturare. Destrutturare può essere molto difficile, nel disequilibrio, se è gestito da un performer, da uno scrittore, da un attore, da qualcuno che lo contiene, in un contesto dove sta interpretando qualcosa ma rimane chiuso in quel contesto, allora può esistere, ma se c’è un disequilibrio costante nella vita quotidiana può diventare invece un rischio».

IDENTITÀ. «Ho fatto una performance intitolata Identità, lì lavoro sulla catarsi, sono 17 minuti dove mi muovo in modo ossessivo, cambiando sempre azione. Ho costruito tutto ciò in una roulotte, ci ho lavorato per tre mesi in questa roulotte e nell’arco di un anno ho raccolto tutti i suoni per il mixaggio audio. In questi diciassette minuti ad ogni frame posso dirti che tipo di vita c’è in quel frame, dov’ero, su cosa lavoravo. Alla fine c’è il rumore di passi nell’erba. Ho fatto una gabbia di vestiti: quelle sono tutte le identità che hai, che devi indossare prima di arrivare a quello che sei veramente, passi degli stadi e quindi volevo lavorare su quegli stadi. Sono bendata, ho i guanti da neve, quindi il contatto è velato, e porto una borsetta con dentro delle pietre che rappresentano il peso di tutte queste identità che indossiamo. Poi ho una scarpa da ginnastica e una con il tacco. Ci sono diversi movimenti e diverse azioni che si susseguono, dal ballare, al cantare, al sussurrare, fino a una corsa forsennata che finisce in una caduta e quella è la crisi ed è con la crisi che comincia la catarsi. Ovvero tutte le identità vengono a fondersi in un’unica cosa. Inizialmente dico che i colori mi rendono sofferente perché non posso esternarli come vorrei. E la performance è un percorso catartico di liberazione dalle pastoie della quotidianità. Quindi dopo la crisi mi tolgo questo enorme costume fatto di tanti vestiti e resto non nuda ma con un abito sottilissimo di rete. Riacquisto tutti i sensi e inizio a sentire  attraverso qualcosa di impercettibile, che in quel caso è il profumo di un fiore, attraverso la delicatezza. Infine c’è il rumore dell’acqua che è un archetipo, sta a simboleggiare la vita e io sono stesa in un’immagine che richiama il Cristo. Non sono religiosa ma c’è in quella posizione un richiamo ai punti cardinali, ha a che fare con le energie che rientrano in circolo.  È un percorso molto violento che invece si conclude con un gesto di speranza. Questa performance l’ho fatta all’interno di Lady Fest. Mi hanno richiesto di farla altre volte ma ho rifiutato perché è qualcosa di così forte e unico che non puoi ripeterlo».

BELLEZZA. «Quando tu hai il concetto puoi fare qualsiasi cosa, se resti fedele a ciò che vuoi rappresentare, puoi permetterti di fare cose anche non convenzionali. Mi interessa molto entrare in contatto con persone che lavorano seriamente e fanno ricerca. Quando c’è qualcosa che ti preme comunicare, devi buttarti, tentare, riprovare, sbagliare, prima o poi arriva l’intuizione . L’importante è avere fiducia nel concetto e nell’onestà, bisogna anche affrontare terreni impervi. Bisogna avere molto coraggio».

CORAGGIO. «Tutto il mio percorso lavorativo si basa su questo. Devi avere coraggio se vuoi fare sperimentazione. Il coraggio ha una spinta positiva. Ti porta a fare percorsi impervi, sei e sembri molto fragile anche ai tuoi occhi, ti porta alla sfida, talvolta al dolore ma poi c’è anche una catarsi. Se lavori nella performance scopri l’essenza. Tutta la tua struttura, un po’ la corazza che ti sei creato negli anni, crolla. Butti via tutto e riparti da zero. Il coraggio significa anche non affezionarsi al proprio ego. Ciò che conta è la semplicità».

SEMPLICITÀ. «Arrivare alla semplicità non è poi così semplice. Ma è quello il nucleo del lavoro artistico, togliere i fronzoli, arrivare all’essenza. Saper comunicare e mettercela tutta affinché il messaggio arrivi a quanta più gente possibile, non solo a chi ha gli strumenti ma anche a chi non li ha. La comunicazione dev’essere trasversale».

VITA. «Se fai l’attore, se fai il performer, se fai lo scrittore, devi vivere. La tua professione è anche quello che professi, quando lavori nella creazione non puoi non evolverti perché la tua creazione si evolve insieme alla tua vita. La parte bambina a volte prende il sopravvento e devi ascoltarla, saperla gestire e incanalare nell’atto creativo».

MANCANZA-INFERNO. «Mancanza-Inferno fa parte di una trilogia di Stefano Odoardi, non è una performance, è un film, girato all’Aquila, nella zona rossa, in 16 mm. Anche se non si parla mai davvero dell’Aquila. C’è un personaggio femminile da me interpretato che è l’Angelo ispirato alle Elegie Duinesi di R.M.Rilke e parla solo attraverso di esse, poi ci sono i personaggi del luogo. È stato un lavoro molto intenso, l’ho vissuto in maniera molto forte. Sono stata un bel po’ all’Aquila, ho lavorato anche con le persone che sono state reduci del terremoto. Il film si ricollega alla performance perché non è stato scritto, non esiste sceneggiatura, il regista mi ha cercata, avevamo già lavorato insieme ed abbiamo ripetuto nuovamente. E’ stato come entrare in una zona di guerra. Ognuno ha vissuto la sua tragedia nella vita, chi in piccolo, chi in grande. Ognuno ha le sue macerie interiori, questo in realtà è un film sulle macerie interiori ed è universale. Questo angelo rilkeiano attraverso la sua tristezza e la sua consapevolezza riesce a ridare una nuova visione».

FERITA. «Non credo che l’arte sia un riaprire le ferite ma un curarle. Se sai curarla, la ferita non esiste più, esiste solo il segno e quel segno ha poi a che fare con l’identità. Se tu sei un artista, devi essere anche un tramite per l’evoluzione dell’umano, non puoi mettere in gioco solo la tua sofferenza, se riapri le ferite lo fai anche per gli altri. Io non amo molto impressionare, talvolta è accaduto, ma voglio farlo su linee che non vanno a deturpare il corpo, tendo a preservarlo, lavoro più sul suono, sullo sguardo, sulla voce. La cosa importante è comunicare, arrivare a tutti e questo lo fai solo con l’onestà, devi trovare la pepita d’oro, cioè arrivare all’origine, all’archetipo, all’essenza. Arrivare alla parte essenziale, così puoi trasmettere ed essere messaggio».

foto2 Angelique Cavallari foto di Karlina Vitolina 2Angélique Cavallari, artista concettuale, attrice di teatro, cinema impegnato e performer con bakground da ballerina di danza contemporanea, pallavolista a livello agonistico e non solo… Tra le sue attività più importanti nel mondo del cinema e del teatro: protagonista di Mancanza-Inferno nel ruolo dell’Angelo ispirato a Rilke, coprotagonista di Fantasticherie di un passeggiatore solitario di Paolo Gaudio (è Sara, la moglie di Jean Jacques Rousseau, interpretato da Luca Lionello), diretta da Daniele Luchetti nell’ultimo film Anni felici, (nel ruolo di Michelle, femminista degli anni ’70, modella di posa dello scultore, interpretato da Kim Rossi Stuart), coprotagonista in The novel di Paolo Licata (dove è la sorella di Edgar Allan Poe), ha lavorato con il regista teatrale Andrea Battistini su Il Processo di Kafka e con Maurizio Donadoni, su Il vero amico di Goldoni. A livello performativo partecipa a vari Festival di arti performative a Roma e a Parigi, per il comune francese, e svolge residenze artistiche per l’Europa. Altre due performance la vedono protagonista nei mesi agosto e settembre 2012, una a Pescara con Oh my Dog!, di Claudio Di Carlo con musica di Diego Conti, una alla maison d’Italie di Parigi per Lucrezia De Domizio Durini  e Aldo Roda Il colore dell’anima, con il pianista Marco Rapattoni.

http://angeliquecavallari.wordpress.com

http://www.imdb.com/name/nm4895843/

La foto in alto accanto al titolo è di Daniele Lo Presti, le altre due di Karlina Vitolina

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