Alessandro Boschi
Visioni contromano

L’amore annoia (anche quello lesbico)

"La vita di Adele" di Abdellatif Kechiche, Palma d'oro a Cannes, è un film monumentale (anche troppo) sui sentimenti e sulla loro caducità nei confronti della vita. Sempre: anche quando sono (o sembrano) trasgressivi

Abdellatif Kechiche non è quello che si dice un personaggio simpatico. Ricordiamo ancora la sua uscita poco felice e sgarbata durante la premiazione della Mostra di Venezia 2007, al termine della quale, secondo lui, il suo Cous Cous avrebbe meritato il Leone d’Oro e non  quello d’Argento (insieme al gran premio della giuria). Concetto che espresse definendo quello che stava ricevendo “un premio modesto”. Ma i modi non sono certo una categoria di giudizio. Lo diventano i film. E qui va detto che già dal citato Cous Cous, ma ancora prima con Tutta colpa di Voltaire e ancor più con La schivata, Kechiche ha dimostrato di essere un ottimo regista e direttore di attori (più che un ottimo autore).  Tralasciamo Venere nera, francamente la sua opera meno riuscita.

Con La vita di Adele ha finalmente raggiunto la vetta, aggiudicandosi la Palma d’Oro all’ultima edizione del Festival di Cannes. Si è sostenuto che fosse un successo più opportuno che meritato. In quanto la concorrenza era davvero agguerrita (Payne, Coen e Farhadi in particolare), ma in virtù della storia raccontata, una storia d’amore tra due donne, a nessuno è sfuggita la saggezza della giuria presieduta da Steven Spielberg. Senza dimenticare che i francesi, bravi ed astuti, hanno edificato più di una dependance in quel di Hollywood. La vita di Adele, tratto dal fumetto Il blu è un colore caldo di Julie Maroh, è un film potente nella sua costruzione, che procede attraverso l’evoluzione di Adele (Adèle Exarchopoulos) in un graduale processo di destrutturazione emotiva e riformazione. Dai primi confusi turbamenti amorosi fino all’incontro con Emma (Léa Seydoux) e i suoi capelli blu. Il blu, ecco, il regista è molto bravo nell’introdurre l’omosessualità femminile anche attraverso le sfumature cromatiche. Prima in maniera apparentemente casuale, poi sempre più esplicita fino al trionfo tricotico di Emma.

La storia avanza fin troppo sommessamente e le tre ore della durata non sono immuni da cedimenti (in sala) anche se la struttura, aiutata dalla grande prova delle protagoniste, regge bene l’urto della noia. Struttura che in certi momenti, descrivendo i mondi delle due donne, subisce una deriva manichea. Da una parte Emma, pittrice che proviene da una famiglia colta e allargata ricca di amici intelligenti (come avrebbe detto Alberto Sordi, qui «so’ tutti intellettuali e ossigenati»). Dall’altra Adele, che deve mentire ai suoi perché non può dire loro (almeno questa è la sua convinzione) del suo amore lesbico. Kechiche, che sembrerebbe appartenere più alla cerchia di Emma, è bravo nel raccontare questi due mondi, che rimangono separati, che non subiscono travasi. Anche perché il mondo di Adele, amici del liceo a parte, non esiste.

Il regista peraltro scansiona i tempi del film in maniera piuttosto brusca, e Adele, da allieva, ce la ritroviamo subito insegnante. Insegnate una, quindi, pittrice l’altra. Due vocazioni forti e inestinguibili che sopravvivranno al loro rapporto. La vera protagonista è comunque Adele, che vede la sua vita rivoltarsi dall’interno senza fermarsi mai, come se la sua condizione fosse sempre un continuo divenire. E questo nonostante sia proprio lei a dichiararsi felice e realizzata grazie al solo rapporto con Adele, il suo centro dell’universo. La quale, Adele, l’avverte, consapevole della caducità dei sentimenti che proprio lei provvederà ad innescare in virtù di una naturale evoluzione professionale. In questo il rapporto tra le due donne è esattamente uguale al apporto che di solito si instaura tra marito e moglie. Intendendo con moglie una donna e con marito un uomo.

Il risultato sarà una mutazione che nulla avrà mutato, un rito di passaggio in questo certo più utile, necessario, alla giovane Adele. Questo  è forse il risultato migliore ottenuto da Kechiche, raccontare una storia senza sublimazioni esistenziali. Kechiche ha sempre bisogno della materia, quella di cui è fatta la vita, e non i sogni. Materia che sa poi lavorare benissimo, come dimostrano le due attrici, anche nelle scene di sesso. Peraltro lunghe e insistite, tanto per chiarire che la metafora non appartiene al suo cinema. Sono molto distanti i tempi di William Wyler e di Quelle due. E non è detto che sia un bene.

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