"Il trombettiere Custer " di Ediesse
Gli eroi dimenticati
Angelo Mastrandrea sotto il segno del reportage letterario ha raccolto una serie di ritratti di personaggi che hanno vissuto ai margini dei miti: dalle guerre alla malavita
Le vie delle scrittura narrativa sono infinite: comincerei così questa breve riflessione sul libro di Angelo Mastrandrea Il trombettiere Custer – e altri migranti. La dittatura della forma-romanzo imposta dal mercato editoriale e dallo star-system e da una moda d’importazione, per fortuna lascia aperte alcune sacche di ricerca letteraria alternativa che vengono riempite da editori intelligenti come, fra gli altri, la Ediesse, che ha ospitato questo ottimo esordio nella sua collana Carta Bianca, diretta dallo scrittore Angelo Ferracuti. In verità è un esordio per modo di dire perché l’autore ha già avuto delle esperienze nella scrittura: non solo ha lavorato come giornalista nel Manifesto (di cui adesso è vicedirettore), ma ha anche scritto reportage per il mitico “Diario della settimana” (quando ancora esisteva), ha curato la raccolta di racconti Italia underground (Teti editore), oltre ad aver lavorato – come racconta nel libro – in una rivista storiografica nella sua terra natia (nella zona del salernitano).
Mastrandrea in questo libro prende la strada del reportage narrativo. Però attenzione, parliamo di un una forma-reportage particolarissima, assai poco praticata da noi, strettamente legata alla ricerca storica, socioantropologica, etnografica. L’autore, anziché dilungarsi sui suoi personali movimenti, lavora molto sullo studio documentale e costruisce dei ritratti vividi di personaggi minori meridionali (lucani, campani, calabresi, siciliani ecc.) emigrati in America (“La Merica”, come la chiamavano al sud, e come qualcuno continua a chiamarla ancora oggi). La ritrattistica di Mastrandrea si avvale di una lingua precisa, colta ma mai affettata, dal taglio memorialistico, capace di racchiudere in poche pagine, o addirittura un poche righe, le coordinate e la dinamiche di un destino, rifacendosi ai più diversi materiali: documenti, lettere, film, canzoni, testi storici, testimonianze dirette dei sopravvissuti, esplorazioni geografiche e urbanistiche tanto nelle terre di origine quando in quelle di arrivo, negli States, in grandi metropoli o in piccoli centri dimenticati. Lo spunto può essere una famosa canzone di Bob Dylan, “Joey”, su Joe Gallo, un gangster mafioso che chiamavano “Joe il pazzo”, personaggio assai complesso di malvivente: affratellato alla galassia malavitosa dei neri (quando tutta la mafia italiana la disprezzava e la combatteva), colto (amante di Camus e Nietzche, nonché discreto pittore), spietato al punto di meritare quell’appellativo di “crazy”, nato nel Bronx ma di un’origine italiana inequivocabilmente evidenziata dal cognome. Sarà proprio “Crazy Joe” a infrangere per primo quell’appartenenza di sangue e ad “aprire il mondo della mala italiana al melting pot criminale”. L’autore ci racconta tutta la sua ascesa nella famiglia nel corso di una sanguinosa guerra fra clan rivali (la cosiddetta “guerra dei castellammaresi”), i suoi dieci anni di detenzione e l’alleanza stretta coi neri di Harlem conosciuti in carcere. Fino alla morte all’inizio degli anni settanta, freddato per la strada davanti a un night club di Manhattan.
Il cantautore americano, nella sua celebre canzone a lui dedicata, racconta le sue gesta mitizzandole parecchio, facendone quasi un ritratto di “mafioso buono”, giacché nei suoi ultimi anni si rifiutava di portare la pistola: “Joey, Joey, ragazzino di creta, Joey Joey, perché hanno voluto spegnerti la vita?”, recitano i versi di Dylan. Ed è sempre il popolare cantautore statunitense che figura in un altro di questi racconti, dedicato al calabrese Mike Porco, anch’egli emigrato negli States in cerca di fortuna, che lo lanciò nel suo locale Gerde’s situato nel Greenwich Village quando era ancora sconosciuto e mezzo sbandato.
E poi c’è un breve, fulminante racconto su un emigrato astigiano, Giulio Massasso, che fece il cuoco e il consigliere di un “re ciccione” di 209 chili – il più grasso e longevo monarca del pianeta – nell’esotica isola di Tonga (famosa per l’ammutinamento del Bounty) e venne seppellito accanto a lui. E non mancano, nella rassegna di Mastrandrea, memorabili figure di anarchici incendiari, di rivoluzionari comunisti, di agitatori politici, di temerari navigatori o dell’unico superstite della leggendaria battaglia di Little Big Horn, John Martin, originario di Sala Consilina (come l’autore), arruolato in uno squadrone di Cavalleria agli ordini del generale Custer, ovvero “il trombettiere di Custer”, che dà il titolo al libro.
La qualità di questi racconti si può apprezzare non solo nel corpo della costruzione narrativa, nell’utilizzo sapiente delle fonti e nella lingua, ma anche negli incipit e in certi finali da narratore di razza, come questo, relativo al racconto dedicato al “libertario” Mario Savio, leader del movimento studentesco americano: “Due anni prima di morire tornò a parlare nella piazza da dove vent’anni prima aveva acceso la contestazione, accusando di fronte a una platea di ex studenti dell’epoca lo speaker repubblicano alla Camera Newt Gingrich e il senatore Jesse Helms di “cripto fascismo”. Fu l’ultimo ruggito di un leone dal cuore affaticato”.