Un libro per non chiudere gli occhi
La musica di Jovica
Moni Ovadia e Marco Rovelli hanno scritto "La meravigliosa vita di Jovica Jovic" raccogliendo la testimonianza di un artista rom. Ne è nata l'epopea di un popolo nomade e ai margini. Condannato all'esilio come gli ebrei
La meravigliosa vita di Jovica Jovic di Moni Ovadia e Marco Rovelli (Feltrinelli, pagg.187, euro 15) è un racconto che ci consente di entrare in un mondo a parte, quello dei rom. Sarebbe impensabile per un rom scrivere un libro, poiché la loro è soprattutto una cultura orale, una storia che vive della seduzione della voce, una storia scritta nel vento, nelle note che scivolano nei campi o nelle feste dal ballo o ai matrimoni o ai funerali. Storie disperse in terre senza confine, senza frontiere, senza fili spinati. «Mio bisnonno è morto a centosei anni con il violino in mano. Io ho cominciato a suonare da bambino. La musica tzigana si suona in maniera diversa: non con le note, ma con il cuore. Chi suona con il cuore quello che sente, piange. Prima piange quello che suona, poi piange quello che sente. E questo a noi ce l’ha lasciato Auschwitz» dice Jovica rammentando il destino di tanti rom finiti nel lager, come suo padre Duzan e sua madre Radmilla che fortunatamente sono riusciti a tornare vivi dall’inferno e differenza di altri familiari.
E questo ci porta ad un tema ricorrente nel libro: i rom e gli ebrei, come popoli accumunati dal destino dall’esilio per venti secoli e, secondo i nazisti, destinati all’estinzione totale. Insieme ebrei e rom hanno esplorato mondi, costruito città e civiltà, inventato linguaggi e musiche. Pensate: Bella ciao prende spunto da un ritmo musicale che unisce la musica klezmer a quella rom. Non caso un gruppo come i Barbez, art rock band newyorchese, così di moda tra i giovani, la hanno riproposta in questi giorni alla loro maniera.
Come hanno scritto Ovadia e Rovelli, questa storia è una storia monca perché scritta in un libro: manca la parola detta, manca la lingua rom, la parlata rom. Qui e là hanno introdotto pezzi di carta scritta di pugno da Jovica per far capire l’intensità di questa scrittura mista, errante, incespicante, intraducibile con un suono romanes che cerca di invadere l’italiano. Jovica racconta la sua storia in un italiano parlato nel serbo di un rom, un italiano buffo e struggente che introduce modificazioni ad una lingua codificata come la nostra.
Lingua, musica, abitudini dei rom sono il frutto delle migrazioni forzati dei popoli romanì che non sono nomadi per natura ma per esigenze storiche. Sono indo-ariani, anticamente insediati nell’India del Nord, allontanati da là dalle conquiste persiane e costretti a deportazioni forzate. Popoli ai margini della storia, come i curdi, come gli armeni, gli indiani d’America, i mapuces, come i siriani e gli eritrei che muoiono oggi nel canale di Sicilia. Le comunità romanes si sono trascinate nel tempo le culture che hanno attraversato, quella del sanscrito, quella greca (dove erano definiti egiziani da cui il termine gypsi o gitano), quella ungherese, boema (ecco il termine bohemien), quella della Transilvania. Hanno portato con loro gli antichi mestieri di maniscalchi, battitori di ferro e rame, allevatori, musicisti e danzatori. Erano visti per questo come una minaccia alla santa religione con i loro riti e la loro pelle scura, la loro parlata strana e la loro musica contaminata. Sempre con la volontà di non assimilarsi, mantenendo la loro identità. Così nel 1498 l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo si sentì in dovere di emanare un editto che autorizzava chiunque a uccidere e bruciare gli zingari, come avvenuto per altri popoli, con la benedizione della chiesa. Il culmine di questa persecuzione fu appunto lo sterminio nazista: almeno mezzo milione, forse un milione di persone romanì massacrate da Hitler. E quello che è peggio è che le comunità romanes furono escluse dal risarcimento dello stato tedesco concesso alle altre vittime dell’olocausto.
Questo è lo sfondo storico in cui si inserisce l’esistenza di Jovica, nato a Mali Mokri Lug, vicino Belgrado, partorito da una zingara di religione ortodossa. Un giorno sentì vergogna vedendo i genitori mendicare e allora decise di farsi musicista.
Se suo nonno era morto col violino in mano, Jovica impugna da piccolo la fisarmonica, una Dallapé rossa fiammante come una Ferrari. È un passaggio epocale. Rammenta l’arrivo del bandoneon nel tango argentino, già miscuglio di flamenco spagnolo e canzone melodica napoletana.
E allora seguiamo Jovica nei matrimoni, nel locali, nel suo ristorante, militare con la fisarmonica, nelle certezze del titismo e nelle incertezze della guerra di Jugoslavia, nei locali di Parigi e nei campi del milanese, a suonare con la sorella, a insegnare ai figli. Lo seguiamo nelle sue perizie allegre e bislacche, tristi e drammatiche come per tutti i deraciné, quelli che soffrono di mancanza di radici, come appunto i figli dei nostri emigrati a Buenos Aires, la città dove tutti soffrono di sradicamento.
Da quella scatola magica Jovica riesce a tirar fuori suoni armoniosi, suoni dei kolo, come si chiama la musica rom, mikino kolo, vitino kolo, dragisino kolo, movimento dopo movimento, bottone dopo bottone, a festeggiare i santi, a benedire le nuove coppie, a salutare i morti. L’universo dei rom si apre ai vostri occhi, in un volume che è storia di un popolo ma anche storia di un’amicizia tra gli autori, tre modi di concepire l’arte, la cultura e la vita che si incontrano. In questo libro le vicende di Jovica compongono un mosaico fatto anche di discussioni con Moni e con Marco, di lettere e di fiabe, di riflessioni e di invenzioni. Il libro riapre anche uno squarcio su una vicenda personale di Jovica. Nel luglio del 1995 suo figlio Daniel, di soli 11 anni, fu trovato morto in una pozza d’acqua nel fiume Magra. La causa ufficiale del decesso fu annegamento, ma Jovica ricorda di aver visto rami spezzati e tracce di trascinamento del corpo oltre a impronte di stivali. Jovica è certo che Daniel cercò con ogni mezzo di salvarsi. A distanza di tanti anni Jovica chiede che quel caso sia riaperto, chiede che vengano ascoltati quei testimoni che non sono stati chiamati o non sono stati trovati.