Visita finale alla kermesse di Venezia
Il teatrino dell’arte
Le performance mancate di Marcello Maloberti, i manichini stanchi di Pawel Althamer, i volumi di nulla di Francesco Arena. Controdiario della Biennale Arte: un manifesto di intenti senza opere
A voler condensare in una sola opera e concentrare su un unico autore la gamma di impressioni, riflessioni, sapori che la Biennale di Venezia ci ha lasciato dentro suggerirei un’istallazione di Luca Vitone in cui ci si imbatte in uno dei siparietti del padiglione Italia. Si intitola «Per l’eternità». Evoca la tragedia delle fabbriche di Eternit di Casal Monferrato e dalle centinaia di morti per cancro che questo materiale da costruzione, ora messo al bando, ha provocato. Ore di sopralluoghi, colloqui con i parenti delle vittime, studi riassunti da un simulacro di odore, che Vitone ha sintetizzato con l’aiuto di un profumiere del posto e dichiarata approssimazione all’aroma del veleno reale. Un sentore dolciastro che invade il padiglione d’esposizione.
L’arte che insegue la realtà e tenta di simularne l’impatto valicando i confini dell’impalpabile. Un effetto, un dubbio d’inconsistenza che ci ha accompagnato lungo le tante passerelle di questa rassegna sulla Laguna. Chissà che l’agitarsi in questa atmosfera senza peso, nella sconfitta o nella resa a questa difficoltà a rappresentare, misurare, assaporare e abitare con l’immaginazione il mondo esterno che sempre ci sfugge e i pianeti della nostra interiorità, non sia il verdetto che la Biennale nel suo complesso ci consegna come presa d’atto sullo stato dell’arte? Una sensazione di respiro corto, aria inquinata, scatti arroganza smagata e furbizia autoreferenziale che abbiamo provato con poche eccezioni quasi ovunque. E che ora proviamo a restituire concentrandoci a capitoli su alcune pagelle esemplari.
Il confine dell’irrilevante. Lo varcano in tanti, tra gli autori di questa kermesse in Laguna. Ad esempio, sempre nel padiglione Italia, Flavio Favelli. Che, inseguendo un suo ricordo d’infanzia dei palchetti religiosi che accoglievano durante le feste piccole orchestre, scopre che questi teatrini mobili erano sormontati da cupole ricalcate sul modello di quella di San Pietro. E mette in scena questo intreccio di analogie ricostruendo in grande scala una di queste coperture di gazebo, clonate sul prototipo di Michelangelo. Per poi piazzargli di fronte un campionario di piattini da souvenir che con pennellate kitsch immortalano il profilo della basilica romana. Esile il messaggio e comunque sproporzionato l’allestimento. L’arte ridotta a scenografia da capriccio.
La leggerezza dello spunto che si fa evanescenza.
Il logos che produce afasia, il procedere che sostituisce il dire. È il paradosso in cui scivolano molti autori concettuali. Come Francesco Arena, altro nome prescelto per il Padiglione Italia. Che innalza due torri di legno (nella foto qui accanto) tra i piloni di ghisa dell’Arsenale. Poi le battezza con una scarna didascalia. Ne ha ricavato – ci spiega – il volume da una complessa operazione contabile, fatta sulla polvere cui si sono ridotte le vittime di alcune fosse comuni di atroci eccidi: registrato e pesato il numero dei morti lo ha moltiplicato per il volume di cenere che avrebbe occupato il suo corpo d’artista e su questo ha calcolato altezza e spessore delle due colonne usate come emblematici contenitori. Architetture che sul luogo di questi cimiteri di senza nome avrebbero forse potuto acquistare senso, ma qui sembrano solo cimeli di un’operazione di narcisismo autoriale e cinismo statistico. La descrizione del procedimento seguito rimpiazza l’afasia dell’opera. È lo scivolone da cui si salva a stento Rossella Biscotti, inserita nel percorso della mostra principale, Il Palazzo enciclopedico, con un lavoro realizzato in un carcere femminile della Giudecca. A marcarne la presenza lungo il percorso è un vago perimetro di muretti da sito archeologico, realizzato (ci spiega la didascalia) con il compostaggio dei materiali prodotti dal carcere. Un’opera fin troppo asciugata che dovrebbe essere animata, se l’altoparlante funziona, dal brusio di una registrazione delle voci delle detenute che risuonano mentre attraversi l’area. Si ha la sensazione di un film muto, cui solo dopo si è aggiunto un doppiaggio sonoro. Il salto dall’estetica all’etica, dal logos al pathos, rimane incompiuto, non ridesta la complicità dell’emozione, per eccesso di sintesi o di pudore.
L’arte come scenografia. Già: ma dov’è lo spettacolo? Due esempi in taccuino. L’opera di Marcello Maloberti per il Padiglione Italia è una perfomance con cinquanta attori che ruotano attorno ad un obelisco centrale portando tavolini modellati con l’aggiunta di sagome aguzze e lanciando meloni. La messinscena del vernissage non prevedeva repliche. E non è ritrasmessa da video. A ricordare l’evento resta solo un tappeto di mobili.
Come essere invitati a teatro e finire a spiare i cimeli del retropalco.
Il secondo esempio ci trasferisce a punta della Dogana, sede del museo Pinault, tempio di artisti consacrati dal mercato, e ribalta nei mesi della Biennale della mostra Prima Materia. A fine percorso ci si imbatte in una grande nicchia tappezzata di tendaggi al centro su un basamento un grande gomitolo di peli di cammello intrecciati. L’opera firmata da un artista americano scomparso una decina di anni fa, James Lee Byars, dovrebbe evocare una sorta di tempio pagano consacrato al groviglio di misteri irrisolti dell’esistenza umana. Ma l’eleganza della confezione sovrasta qualunque messaggio. Altro teatrino senza spettacolo in locandina.
Tanto spettacolo, scarso spessore. Cade in un vizio opposto un altro autore inserito da Gioni nel percorso della mostra all’Arsenale, Pawel Althamer, che ha imbottito un’intera sala di manichini a grandezza naturale sagomati in plastica (nella foto accanto al titolo, in alto) con arti e volti lacerati ad ostentare una morte e una resurrezione da lebbrosi. Chiaro omaggio agli zombies di tanti film splatter catturano inesorabilmente lo sguardo per la quantità davvero smisurata. Ma tutto si ferma lì: nessuna emozione. Uno spreco d’autore.
L’arte in superficie. Gigantismo, moltiplicazione, messinscene costruite per accumulazione strappano visibilità ma non sempre garantiscono intensità. È quel che a nostro avviso succede ad Adel Abdessemed, ospite della mostra alla Dogana. Per condannare violenza e sopraffazione allinea quattro Crocefissi, modellati alla maniera antica ma con un luccicante filo spinato, ricavato – dice l’autore – dalle recinzioni di Guantanamo (più probabilmente solo da un facsimile vista la brillantezza dei materiali). Quadruplicata e sfavillante l’immagine del supplizio del Cristo finisce però per disperdere la sofferenza che dovrebbe sprigionare. Succede se l’arte abbandona la profondità per galleggiare in superficie. Se l’artista è un qualche modo un illusionista non dovrebbe svelare così palesemente i suoi trucchi.
La parola d’ordine della profondità sembra del resto segnare come profezia,atto di sfida, orizzonte d’identità la mostra di Massimiliano Gioni, epicentro dell’intera Biennale: perché altrimenti raggruppare ed esibire sotto uno stesso titolo, Il Palazzo Enciclopedico, i lavori di artisti di ieri e di oggi, professionisti e dilettanti, creativi e visionari, che da vari versanti e con varie motivazioni hanno inseguito un loro sogno di verità, di organizzazione della conoscenza e del mondo delle mere apparenze, cercando linfa nella propria interiorità? Un manifesto d’intenti così marcato da rimuovere il sospetto che in fondo l’innescare questa deriva di ricerca possa essere solo un modo furbo di evitare di schierarsi, prendere posizione sullo stallo dell’arte contemporanea, cercare vie d’uscita dalla coazione a ripetere e ad imitare di tanta, troppa produzione concettuale.