Riccardo Caporossi
Ancora sul Valle occupato

Il sogno del Valle

Riccardo Caporossi, che aveva sposato l'occupazione del Valle, ci ha mandato questa splendida e dolente lettera. Con una riflessione postuma di Claudio Remondi sul senso di fare del teatro un bene comune

Vincendo l’indugio e la resistenza a scrivere, stimolato dal tuo articolo sul Teatro Valle, l’”antico” ricordo di stima e frequentazione mi sollecita ad inviarti qualche riga di riflessione. Non sono solito fare questo, né aggiungermi necessariamente ai già tanti commenti che vengono espressi, forse troppi tanto da rischiare che non ci sia più nessuno che li ascolti.

Il tuo articolo mette a fuoco problematiche giuste, incisive, complesse, come dire “mette il dito nella piaga” e tra le pieghe di un sistema, quello teatrale, e più in generale quello della cultura, che di indipendente non ha più nulla se non la sindrome del personalismo. Nonostante sia tutto smascherato si riesce comunque a forgiare anche al momento qualche maschera da indossare. Mi sto rendendo conto che questa strada implica etica, deontologia e forse è meglio non percorrerla anche se importante e rivelatrice.

Torno al primo punto: il Teatro Valle. Ho frequentato il Teatro Valle fin dai primi giorni. Mi è stato richiesto di intervenire; ho fatto uno spettacolo, una “permanenza” programmando alcuni eventi oltre ad un laboratorio con spettacolo finale, ho partecipato a diverse assemblee anche quelle interne quasi inaccessibili e senz’altro estenuanti dove non ho mai visto teatranti della mia (o nostra) generazione, ho scritto un documento dove illustravo un possibile progetto per il Valle, ho donato un mio quadro per un’asta pubblica poi convertita in una donazione alla nascente fondazione, ho coinvolto in una performance tutti gli occupanti, ho realizzato la “camminata degli invisibili” dal Valle al Museo Maxxi. Forse troppo. Altri non l’hanno fatto; sono andati lì a presenziare per dare un’adesione interessata.

È da un po’ di tempo che non vado più. Con questo non voglio negare l’entusiasmo che mi ha avvicinato. Ho creduto più al bene pubblico del Teatro  (in generale) che non al bene comune da sottrarre al privato e tanto più alla concentrazione monopolistica del Teatro di Roma. Insieme a Claudio, il lavoro svolto ha sempre manifestato e dichiarato ”lavoriamo per l’umanità”.

In quel Teatro ho rappresentato diversi spettacoli; l’ultimo ha coinciso con l’ultima stagione dell’ETI. Il Teatro Valle ha già una sua identità: archetipo del teatro mondiale come giustamente dici tu. Spronavo gli occupanti a dare identità a ciò che poteva abitarlo, contrario comunque al manipolo di drammaturghi che frettolosamente volevano, forse vogliono tutt’ora, siglarlo come loro esclusivo centro. Ho suggerito una proposta da attuare subito, credo che avrebbe sfidato gli stessi teatranti, cercando la complicità delle istituzioni statali e territoriali per dimostrare di poter proporre una strategia che comprendesse il futuro con progetti pluriennali; strategia mai contemplata seriamente nel sistema teatrale e non solo. Forse non era necessario neanche costituire una fondazione, poteva bastare una associazione. Hanno preferito percorrere una strada che ora mi sembra intasata dalle molteplici insegne pubbliche (pubblicitarie) tutte ugualmente inneggianti il bene comune; quando tutto sembra privatizzarsi.

Sintetizzo altri punti:

non mi sorprende accettare l’assurdità che l’occupazione del Valle sia un effetto del “maledetto” comportamento che impera, ciò che mi sorprende è che tale comportamento ha causato la perdita dell’immaginario e dell’invenzione.

Già in passato si era messo in discussione il finanziamento pubblico al teatro privato, briciole di buona volontà andate a finire sotto il tappeto.

Il teatro pubblico?: lussuose case private.

Carmelo Bene diceva che avrebbe voluto guadagnare tanto per comprare tutti i teatri e chiuderli, risparmiando al pubblico di ……………….(indovina?) “io non lo so, ma continuo a domandarmelo”

In un recente spettacolo raccontando le vicende degli Atridi come metafora del Male intercalo i capitoli con la frase ”non c’è niente da capire, ma vediamo di capire quello che ancora c’è”, svolgendo a ritroso gli episodi per scrutare l’origine.

Augurandomi che tu possa continuare a tenere viva la questione ho pensato di inviarti un “piccolo” documento scritto da Claudio nel 1990 che sintetizza già in quegli anni le problematiche, mai risolte, vissute sulle nostre spalle, e quindi oggi, con la loro esasperazione, si rende quanto mai attuale.

Riccardo Caporossi

claudio remondiClaudio Remondi

Roma 9/9/1990

Ecco un piccolo schema in sette punti per tenere unite le mie poche modeste considerazioni sull’argomento.

I punti sono questi:

1) – Siamo qui. Perché.

2) – Il Teatro; cos’è.

3) – Un ciclo si compie.

4) – Oggi in Italia. Teatro e Politica.

5) – Il senso dei Teatri.

6) – Indipendente. Urgente.

7) – Concludendo, per ora.

 

1) Siamo qui. Perché.   Sono reduce da una stupenda vacanza durata un mese. Quest’anno ho scelto l’Europa – Via Gaetano Mazzoni n.20, Roma – dove esiste un’isola (o isolato) di mq 1000 in superficie, altezza: infinito. Lì tra un po’ di verde, due cani, quattro tartarughe, una cornacchia, un gatto e numerosi insetti, mi ha raggiunto l’invito di una persona a manifestare una mia riflessione, distogliendomi per un attimo dal rapporto muto con i miei amici. Ho accettato, ma ora non so più come affrontare il complesso impegno ammettendo che non saprò mai dire, tanto meno scrivere, quello che penso. Durante la impagabile vacanza ho cercato comunque di riportare a galla ricordi della mia vita nel Teatro, almeno quelli più importanti e inerenti all’argomento, che mi potessero aiutare, i quali, ho scoperto risalgono a oltre cinquanta anni fa. Questi ricordi mi turbano perché, osservandoli così vividi, mi avvertono che forse sono molto vicino alla fine della mia vita nel teatro.

Dubito che siamo qui tutti con le stesse motivazioni, anche se la buona fede ci fa sentire tutti uniti.

2)  Il Teatro; cos’è.   A me risulta, dall’esperienza diretta, che il teatro si insinua nella vita di un essere umano, inconsciamente e può continuare così, senza che lui se ne renda conto, fino alla fine dei suoi giorni.

Quando un vescovo, con un leggero schiaffetto, mi consacrò soldato di Cristo, la commozione dei parenti e della folla provocò in me un’emozione talmente forte che solo oggi posso definire “teatrale”.

Più tardi sono stato testimone attivo di un’emozione simile quando, dopo un bellissimo e commovente discorso del gerarca Pietro Sparapeti, mia madre consegnò piangendo, non mi fu chiaro perché, gettandola in un’urna, la sua bella fede nuziale d’oro in cambio di un preziosissimo cerchietto di ferro.

Ero balilla nonché chierichetto e frequentavo la scuola media Marianna Dionigi distante due-trecento metri dalla Basilica di S. Pietro e trenta chilometri da casa mia, dove vivo ancora.

Il sabato bisognava partecipare alle adunate ed io, causa la distanza da casa mia, consumavo sotto il colonnato di S. Pietro le due pagnottelle preparatemi da mia madre. Cito questo mio pranzo del sabato perché la professoressa di italiano mi additò in classe come un piccolo eroe solitario il quale aveva però il grande onore di pranzare nella più bella piazza del mondo, centro dell’universo. Ma alla grande e bella adunata del sabato fascista era d’obbligo la divisa, per la quale, data la povertà della mia famiglia, mia madre aveva dovuto tingere di nero la bianca camicia della cresima che però, dopo alcuni lavaggi divenne marrone.

La mia divisa, non più perfetta, convinse il professore di ginnastica a dovermi inquadrare fra gli “abissini” per allestire la battaglia simulata nel cortile della scuola, alla presenza di tutti i famigliari degli studenti.

Morivo così ogni sabato-fascista al fischio convenuto del caposquadra restando disteso a terra con tutti gli altri “abissini”, fino agli applausi esultanti degli italiani vittoriosi.

Continuavo comunque a sentirmi “soldato di Cristo”pranzavo nella più bella piazza del mondo e poi, tempo permettendo, prima dell’adunata, mi incastravo tra le colonne nel punto del colonnato in cui si ergono raggruppate e leggevo Salgàri.

Uno di questi sabati mi abbordò un vecchissimo Monsignore domandandomi cosa stessi leggendo di bello. Presentai il libro e lui, senza mezzi termini, mi maledisse informandomi anche che Salgàri era morto suicida e che io, a causa di quelle maledette letture, sarei certamente finito nelle fiamme dell’inferno. Restai molto scosso ma fu lì, incastrato tra quelle tre colonne , dopo aver strappato l’immaginetta di S. Luigi poco prima offertami…..Fu lì che vissi la mia prima masturbazione folgorante. Dopo, affranto dal rimorso, andai a morire come “abissino” alla presenza di tutti i professori e famigliari della scolaresca.

In quel periodo della mia vita, anche per altre esperienze che non occorre raccontare, mi sono state offerte le prime importanti lezioni di teatro. Sono stato coinvolto in ruoli non scelti mediante l’impiego di mezzi fantasiosi e carichi di fascino repellente come: le mascherate, i travestimenti, le divise, i paramenti, le parole, i suoni, le smorfie, le parate, le bandiere, le cerimonie, le competizioni, le commemorazioni, le premiazioni, promozioni, le gare, le manifestazioni, le esecuzioni e cosi via………

Stordito. Inebriato. Ne sono divenuto dipendente a tal punto che è stato necessario un faticoso processo di recupero, ancora oggi in corso, forse senza possibilità di uscita perché, devo ammetterlo, il Teatro cos’è……non lo so.

Ma sono convinto fino al prossimo ripensamento che il teatro come forma d’arte  esige di essere inventato, perennemente al presente come, eternamente e solo al presente, si può assistere al lento fluire della creazione.

3)   Un ciclo si compie. I cicli della storia costituiscono una gamma infinita di passaggi. Ma il processo evolutivo è spesso costretto a ricominciare da “più indietro” perché la modernità, quando vuole scavalcare il processo naturale, quasi sempre trascura di prendere in esame, insieme al presente e passato, anche il futuro il quale, per sua natura, è destinato a divenire il presente del raccolto. Oggi il raccolto teatrale a disposizione è ben misero; non parlo delle eccezioni perché chiunque vi si rifugerebbe.

Questo presente ci offre tutte le crisi che non occorre elencare per l’ennesima volta. Già dalla generazione di cui faccio parte l’attenzione al teatro si è bloccata al profitto immediato basato sullo sfruttamento delle esperienze passate elevate a leggi assolute, profitto immediato basato su ricette ed etichette di moda promosse a ruolo di correnti, profitto immediato basato sul compiacimento senza rischio del proprio volto imbellettato di impegno social/politico trasfigurato al ruolo di necessità, e così di seguito. Il raccolto a disposizione è ben visibile per chi non è distratto da altro; una proliferazione soffocante di reciproci riconoscimenti, autopremiazioni, convegni promozionali di se stesso e dei propri congiunti, organizzazione scambi internazionali in prima persona, fondazione di Enti e Associazioni a tutela di interessi economici; difesa di Enti e Associazioni inutili mediante la ricomposizione della loro maschera sgretolata.

Tutto sostenuto dal coro trionfalistico dei sacerdoti, artisti, profeti, geni, vescovi, assessori, maestri, teorici e professori, burocrati e ministri, banche e organizzatori, critici, drammaturghi, ideatori e tecnici. Insomma personaggi illustri che intimidiscono l’omino comune, ammantati di un carisma ufficializzato dalla tessera del partito.

Tutto questo è il grande materiale teatrale a disposizione oggi e non è poco. E’ un grande materiale che rende sempre più evidente la grande importanza del finanziamento pubblico. Finanziamento pubblico come intervento pubblico per la sopravvivenza del teatro italiano. Si studiano nuove leggi e nuove circolari, criteri quantificativi di qualità, teorie di valutazione di professionalità, progetti di burocratizzazione ecc. ………Tutto per finanziare questo – come si suol dire fra popolani che ne hanno il senso – : GRAN-TEATRO con il quale si compirà, comunque, il ciclo dei millenni.

4)   Oggi in Italia. Teatro e Politica.    Facili battute in proposito sono una grande tentazione, ma bisogna resistere. Tutti i partiti, in questo momento, stanno vivendo le loro belle crisi interne e fra di loro e ci impongono un minimo di comprensione. Ma, per poter collaborare al necessario e auspicato rinnovamento, non possiamo dimenticare che la classe politica ha fornito al paese grandi lezioni e spettacolari esercitazioni di alta drammaturgia da rendere patetici quei prestigiosi corsi di formazione professionale. Ha fornito al paese una folla di esosi e illustri personaggi, infettati dalla spettacolarità di se stessi, volatili onnipresenti e assenti da tutto, bisognosi di stuoli di segretarie e assistenti a loro volta bisognosi di assistenti e segretarie. Questi personaggi scorazzano per il mondo piantando le proprie bandierine in cambio di importazione a nostre spese, teatralizzando alla GRAN-TEATRO l’unione europea ma ignorando la teatralità dello sgretolamento nazionale, ovverosia la nazionalità dello sgretolamento teatrale, riducendo l’Italia  a semplice colonia. La classe politica ha fornito il paese di troppi personaggi “cari” (nel senso di costi) legittimando pluri/incarichi, tutti in varie forme retribuiti. “Cari” (nel senso di costi) per diritti acquistati al buio e non per attività svolte. La classe politica sta obbligando professionisti, seriamente impegnati, a dover trattare con l’incoscienza e il disinteresse, per il teatro come forma d’arte, dei vari direttori, burocrati, assessori, ecc……………

Devo interrompere qui questo paragrafo perché è piombato improvviso sopra di me il vivido ricordo dei sabati in cui rivestivo il ruolo di abissino.

5)    Il senso dei Teatri.    TEATRO  è un termine che va considerato al plurale, dicono tutti e lo dico anch’io. La pratica teatrale è tesa ai seguenti scopi:

– Finanziamento pubblico

– Commercio senza rischi

– Utilizzazione del congegno politico

– Vantaggi allo sponsor

Tutto manovrato con abile regia su di una folla dalla labile personalità, continuamente agitata, alla quale è stato inculcato il senso del profitto come bene assoluto. E’ stata organizzata nel tempo una fitta rete di oneri ed impegni pseudo sociali. Una rete talmente pesante e ben ancorata da rendere impossibile ogni pratica teatrale all’insegna del volontariato autogestito, dell’impiego della propria persona e delle proprie idee ad esclusivo e proprio rischio. Contro ogni legge sociale, credo. Le vocazioni dei giovani e no, sono setacciate da nuove e vecchie istituzioni nelle mani di quei noti personaggi incontrati già nella mia infanzia. Ometto le eccezioni per impedire che tutti ci si rifugino.

La presente pluralità del teatro, italiano, si conferma dunque così:

– Privati, Cooperative, Ragazzi e Programmazione nazionale – commercio senza rischi.

– Stabili, Centri, Ragazzi e Programmazione nazionale – e congegno politico.

Il tutto sostenuto da:

– Finanziamento pubblico

– Sponsorizzazione da sgravio fiscale, comunque a spese del cittadino

Questo magistrale pluralismo a raggiera riuscirà a strozzare definitivamente lo spazio vitale agli “abissini” che sognano l’autonomia e l’indipendenza, i quali si oppongono all’idolatria della sponsorizzazione, si oppongono al servilismo dei rampanti nei confronti dei partiti retrocessi al “singolare” con il termine di classe politica? La categoria dei teatranti, artisti senza altre vocazioni, studenti alla scuola della GRANDE FARSA del teatro italiano, è costretta, ancora una volta , a mobilitarsi per stappare, se necessario, quelle strozzature. Per sradicare tutte quelle trappole ben predisposte sul suo cammino.

6)    Indipendente. Urgente.    Attenzione alle trappole. Attenzione alle caramelle. La trappola è la più antica arma che l’essere vivente ha conosciuto, sia come predatore che come vittima. Tutto può diventare trappola anche ciò che in precedenza e per tanto tempo è stato utile e prezioso. Può diventare trappola l’amore come l’ideale, la maternità come il magistero. Tutto è possibile trappola e sempre possibile in entrambi i sensi. Esiste una trappola formata da un foro, abbastanza grande perché la mano di una scimmia ingorda possa penetrare ed afferrare l’esca; ma questo foro è anche troppo piccolo perché il pugno della scimmia possa uscirne. La scimmia, ingorda e scema, non aprirà mai il pugno per non lasciare la nocciolina. Perderà la libertà e la vita. Leggendo un libro per documentarmi sull’attività del mago Udinì, ho capito, dopo quaranta anni, la lucidità intuitiva in mio possesso quando ero bambino. Ero riuscito a scivolare via da tutti quei personaggi, o ruoli, che mi si volevano imporre, come liberandomi da trappole delle quali conoscevo il congegno segreto. Lo facevo inquadrando tutto e sempre da un punto di vista teatrale. Una facoltà intuitiva del selvaggio, forse, che poi ho perduto nella prima gioventù quando sono stato schiavizzato dalla teatralità, quella teatralità fascinosa nei confronti della quale non sentivo più quella sana repulsione.

Indipendente e urgente.

Passo attraverso la repulsione del teatro divenuto trappola, cercando di stracciare e incenerire tutto il ciarpame sottraendolo al riciclaggio, perennemente ininterrotto, al possesso dei………(pausa). Ometto il solito elenco dei fantasmi da sbaragliare per ritrovare……………un verme magari il quale , perché vivente, mi può essere fratello.

Attenzione alla trappola della retorica, dico a me stesso. Le trappole funzionano sempre.

Diplomati all’Accademia d’Arte Drammatica, ci si può trovare  a servire la pubblicità televisiva. Ammessi a proporre il proprio talento alla televisione di stato ci si può trovare a celebrare il “Te Deum” all’onnipotente sponsor. Attenzione alla trappola della retorica, ripeto a me stesso; rispondo: va bene. Non è necessario sottrarre e distruggere fino a ritrovare il verme, del quale comunque resto fratello, ma possiamo fermarci nel grande scorticamento all’uomo. Possiamo arrivare anche più indietro, all’omino comune ancora intimorito da quei personaggi illustri rovesciati in pattumiera. Possiamo scendere ancora più in fondo, nel doloroso scrostamento, arrivando a mettere in luce quegli esseri, rimanendo nell’umano, votati al martirio senza gloria organizzato dalla società della marchetta, come dire civiltà del pollo: “bello, stupido, ingordo e appetitoso”. Mi sono intrappolato ancora una volta nella retorica e non so più come uscirne. Mi sento ridicolo come una folla di professionisti del tatticismo riuniti sul palcoscenico del loro convegno, di fronte ad una folla di poltrone di velluto rosso, a totale disposizione di un solo omino comune e intimorito. Vi offro la mia e la loro ridicolaggine per farmi perdonare.

7)    Concludendo, per ora.    Liberiamo l’omino solo, dimesso ed intimorito dalla folla di tatticismi di professione e rispettiamo le sue potenzialità.

Potrebbe essere uno spettatore.

Potrebbe essere un artista.

Sto dunque parlando di teatro.

Ma allora tutto il resto cosa c’entra?…………………… Il teatro, ora come sempre, è il teatro fatto da omini soli. Capaci di produrre il sorprendente se li si lascia fare. Dipendenti soltanto dall’indipendenza come ideale. Omini e donnine grintosi e agguerriti di umanità, solitari e socievoli, capaci di vivere in ricchezze e come romitori, senza ostilità se li si lascia vivere e operare. Nella loro scandalosa lucidità, sanno che la santità passa spesso dalla scomunica e lo stato di grazia può condurre alla morte civile.

Sono ricaduto nella retorica peggio del gerarca Sparapeti.

Concludendo approfitto per comunicare:-una delle tartarughe regalateci, a me e Caporossi, dai trenta giovani attori che hanno dato vita allo spettacolo “Passaggi” è morta-. Non so se la mia o quella di Caporossi. Una mattina ho trovato sulla porta di casa il guscio straripante di vermi. Era stato portato lì da uno dei miei due cani, rovesciato, pendevano appesi la testa dallo sguardo vitreo e una zampa ancora riconoscibili. Ho avuto un dolore, è chiaro, ma non l’ho uccisa io, non uso nel mio orto anticrittogamici. Il mio cane ha dissotterrato il guscio e me lo ha portato ancora colmo di un’altra vita brulicante. Per me è una reliquia dello scambio di esperienza vissuto con quei giovani. Pulito il guscio me lo sono portato agli occhi ed ho potuto osservare, da una delle aperture, la stupenda volta della sua esistenza. Spesso, attraverso il guscio, osservo la realtà adiacente con più distacco.

Concludendo, per ora – allo Stato la grande responsabilità di come amministrare i fondi destinati al teatro…………in me, grazie a quei trenta giovani attori, sta maturando l’idea di poter fare teatro, in un pessimo presente, dentro un guscio di tartaruga.

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