La Mostra rende omaggio a due maestri
Siamo tutti felliniani
Oggi a Venezia arriva "Che strano chiamarsi Federico!", vero e proprio capolavoro di Ettore Scola dedicato a Fellini. Un film sul nostro immaginario. Su come è nato e su come lo abbiamo dimenticato. Con un epilogo particolarmente amaro
L’altro giorno, salutando amici e ospiti presenti alla prima proiezione privata del suo nuovo film, Che strano chiamarsi Federico!, Ettore Scola si è detto convinto che tutti gli italiani debbano qualcosa a Fellini. Anche quelli che non hanno mai visto un solo fotogramma dei suoi film hanno nel proprio immaginario una faccia, una luce, una trovata di Fellini. Come si sia arrivati a edificare questo patrimonio di sensibilità e colori è l’oggetto del film che oggi sarà presentato con tutti gli onori (fuori concorso) alla Mostra del cinema di Venezia.
Dunque, il film è questo: una carrellata parallela sull’universo fantastico di Fellini (universo che è diventato il nostro, appunto) e sul percorso intellettuale del giovane riminese che in pieno Ventennio arrivò a Roma con l’obiettivo di trasformare i suoi sogni in storie per tutti. Per metà “fiction”, per un quarto film-documentario, per un quarto repertorio; a cucire tutto c’è un narratore saggio e simpatico (Vittorio Viviani), che nei modi e nel costume ricorda un po’ Enrico Viarisio, burbero moralista nei Vitelloni. Ma non c’è una vera trama da raccontare: i due protagonisti di questo film sono il cinema e le emozioni. Girato nel mitico Teatro 5 di Cinecittà (“Io non abito al Teatro 5, diceva Fellini, ci vivo”), Scola si diverte a smascherare i trucchi del cinematografo in continuazione: il mare proiettato sul fondale, le stanze ricostruite in studio, le strade lastricate di legno ben dipinto che pare di sampietrini. E quel parlare in continuazione del “fare cinema”: espressione che qui perde la sua astrattezza creativa, artistica, algida, e si fa concretezza artigianale, ché ti immagini gente che inchioda cantinelle e avvita proiettori tutto intorno alla realtà per renderla un po’ più accettabile. Molte scene del film, per esempio, riprendono nel buio Fellini e Scola in giro per Roma su una vecchia automobile. Una volta li accompagna una puttana simpatica e sognatrice, una volta Mastroianni, una volta il Narratore: Fellini parla e parla, in continuazione, ma è proprio la voce del regista quella che sentiamo; rubata (con grande rispetto) a vecchie interviste trasformate qui in dialoghi. E si parla di questo: della fatica e della futilità del creare, se non per dar corpo ai propri sogni e ai propri incubi. “A volte mi sveglio e faccio dei disegnini per ricordarmi meglio i sogni”, dice il vero Fellini. Che più in là aggiunge: “Faccio film perché mi pagano anticipi che non voglio restituire. E per non restituire gli anticipi faccio film”: che forse sarà stato anche vero… Perché questo ha di bello il film di Scola Che strano chiamarsi Federico!: che comunica arte senza prenderla e prendersi troppo sul serio. È come se il dono più prezioso di Fellini, Scola, Ruggero Maccari, Age & Scarpelli e tutti altri ricordati o reinventati qui sia l’autoironia. Un bene magnifico, sublime quanto ormai irrimediabilmente perso.
Anzi, l’epilogo sull’Italia (c’è, anche se non si vede, anche se non pesa) è proprio questo: perduta l’autoironia abbiamo perso la misura di noi stessi e la nostra stessa identità. Nel senso che l’immaginario di un popolo è la sua identità. E il modo in cui quel popolo si misura con la propria immaginazione dà la misura dell’aderenza o meno alla realtà. Prendete Ginger e Fred: questa era la sua denuncia, ossia il fatto che gli italiani avessero smarrito la misura chiara della propria miseria. Se vogliamo, la perdita della nostra capacità di ridere della nostra stessa piccolezza. Che cos’è stata, la Commedia all’italiana se non questo?
Poi Scola, da quel maestro che è, fellineggia. Come quando mette nell’automobile accanto a sé e all’amico un pittore di madonnelle di gesso ubriacone e spiantato che dialoga dei massimi sistemi dell’arte con Fellini: è forse una delle scene più toccanti, più profondamente simboliche del film e ciò si deve a come è scritta, a come rimescola vecchie interviste di Fellini e a come Sergio Rubini interpreta il ruolo del pittore barbone. Proprio in questa scena, che è “alla Scola” almeno quanto è “alla Fellini”, sta il senso profondo del film. Non solo un omaggio a un amico e Maestro (che pure c’è ed è commovente) ma il ritratto di quel che siamo appena stati. E come lo siamo stati. E perché. Nel senso che prima Fellini poi Scola dal Marc’Aurelio a Cinecittà hanno adoperato i propri sogni e le loro storie per dare un ordine e un senso alla fantasia comune. Siccome c’era da ricostruirsi, non bastava rifare case, strade e palazzi: bisogna che qualcuno pensasse anche alle memorie, alle risate e ai sogni.
Non solo. Aleggia sul film un senso del passato, del come eravamo che non è nostalgia. Mai, assolutamente. È testimonianza di ciò che qualcosa o qualcuno ha rotto improvvisamente facendo saltare a noi altri italiani la fase finale della nostra maturazione come popolo, come comunità. Come un ragazzino che diventi vecchio, umiliato dal catetere e dal lifting contemporaneamente prima ancora di essere mai stato adulto, forte e sicuro di sé. Questo siamo noi: post-moderni senza mai essere stati moderni, post-industriali senza mai aver fatto industria, post-comunisti senza mai essere stati operai: tutti giocatori di Monopoli che vogliono uscire di prigione passando e ripassando continuamente dal via a prendersi le immeritate venti lire. È da questa amara convinzione (ne fa testo un’altra bellissima scena, quando si immagina Fellini tornare a Roma dal suo ultimo Oscar a raccogliere i complimenti falsi e burini di gente che in realtà ne ignora il genio profondo…) che, dopo la chiosa saggia del Narratore, si parte per il finale poetico del film. Un finale che vorrebbe programmaticamente essere ottimista (“Dammi un raggio di sole, alla fine, mi chiedono i produttori”, dice Fellini) e invece è un epitaffio per la fantasia perduta: mentre la gente sfila davanti alla sua bara nel Teatro 5 di Cinecittà, Fellini scappa alle guardie che ne piantonano la salma e fugge per Cinecittà, fino a trovare una giostrina, nella quale si sistema e si lascia andare alla fantasia che lo ha posseduto in vita. E in uno splendido montaggio si sommano facce e immagini dei suoi film fino al colpo finale: la palla di piombo che irrompe nella sala da concerto di Prova d’orchestra e che distrugge con la sua sgraziata pesantezza la leggerezza dei sogni dei concertisti. Ossia uomini – ricorderete – che hanno perso la capacità di scherzare su di sé, sui propri difetti e, soprattutto, sulle proprie qualità.
Grazie, Ettore Scola.