Uno scrittore un artista
Banalità è guerra
Le cronache dal fronte strazianti, amare, drammatiche compilate da Eugene Richards non potrebberro essere accomunate ad altro che alle sue foto. Scatti costruiti o rubati, ma sempre fatti per cogliere una realtà stravolta
La guerra è come lo smog. Anche se non riusciamo a vederla ella è sempre presente, assiduamente impegnata nell’avvelenare subdolamente le nostre esistenze, a manipolare le nostre economie, a ribaltare l’ordine delle umane priorità, a ricattare lo strato più debole delle nostre società. Capita così che nonostante una scossa di terremoto faccia sì che il tetto di una scuola crolli in testa ai suoi piccoli allievi uccidendoli, o che un anziano con un femore rotto si ritrovi parcheggiato per una notte intera nel corridoio di un pronto soccorso in attesa che si liberi un letto o che ogni anno migliaia di madri debbano scegliere fra il loro lavoro o le pesanti rette dei nidi privati (la lista potrebbe andare avanti all’infinito) lo stato decida comunque di investire un’importante fetta della propria paghetta nell’acquisto di materiale bellico o nel finanziamento di campagne militari intoccabili anche se giustificate da comprovate menzogne.
La guerra è un fatto personale e riguarda ognuno di noi anche quando siamo convinti del contrario solo perché le nostre giornate non sono scandite dal susseguirsi di continue esplosioni o perché la mattina per raggiungere il nostro ufficio non siamo costretti a passare attraverso un check point. L’ex assistente sociale oggi reporter Eugene Richards racconta nel suo straziante libro War is Personal (La guerra è un fatto personale) attraverso l’esperienza di reduci e familiari l’incommensurabile “costo umano” che la guerra in Iraq ha comportato per gli Stati Uniti. La maggior parte dei suoi intervistati proviene dalle zone più povere del paese, dove trovare o mantenere un lavoro è impresa assai ardua e persino pensare di poter pensare al college una possibilità largamente inesplorata. Queste sono le zone predilette dai reclutatori dell’esercito o della guardia nazionale i quali in cambio di una firma offrono stipendio, posizione sociale e soprattutto un’uscita di emergenza dalla disoccupazione e una vita vissuta in caravan.
Il libro di Richards si legge con il nodo alla gola.
È impossibile restare impassibili davanti all’odio e al disprezzo per la guerra di Carlos Arredondo il quale dopo essere stato informato della morte del figlio perde completamente la testa e non solo finisce con lo sfasciare il pulmino dei soldati venuti ad informarlo della sua perdita a suon di martellate ma dà anche fuoco al veicolo riportando egli stesso delle ustioni che lo costringeranno a partecipare al funerale su una barella. Poi c’è anche Tomas Young, sulla sedia a rotelle, la sua motricità compromessa non solo dalle ferite riportate in guerra ma anche da tutti i farmaci che è costretto ad assumere. Durante l’intervista Tomas tenta ripetutamente di accendersi una sigaretta ma ogni volta che ne tira fuori una dal pacchetto questa gli cade a terra o fra le gambe. Richards non può fare a meno di notare tutte le bruciature che Tomas ha sul corpo dovute alle sigarette. Di alcune è rimasta solo una cicatrice nerastra, altre sono ancora fresche.
Il Sergente Princess Crystal Dawn Samuels aveva appena ventidue anni quando è deceduta in servizio ma la salma meticolosamente ricomposta visibile alla camera ardente non sembra affatto quella di una giovane donna. Anzi. Il trucco pesante, la ricostruzione del volto, la divisa perfettamente stirata con tutte le decorazioni al loro posto le conferiscono un’aria surreale, artificiale, quasi fosse un manichino. Le persone accorse per darle l’ultimo saluto sfilano silenziose davanti al feretro aperto, qualcuno bisbiglia, c’è chi ha il coraggio di darle un bacio o toccarle una spalla. L’aria è pesante perché quando la morte è giovane è difficile da mandare giù.
Eugene Richards ha anche intervistato Michael Harmon, un giovane che abita con la nonna ottantenne, la madre e il patrigno. La droga è sempre stata una presenza fissa nella vita di Michael, anche durante il servizio militare. Lui ha prestato servizio in Iraq come sanitario accompagnando le truppe durante le varie missioni di ricognizione. Ma non si è trovato a prestare soccorso solo ai compagni in divisa. Racconta di quando ha dovuto soccorrere una bambina di appena due anni gravemente ferita ad una gamba senza poter fare uso di morfina. La bambina non piangeva, non emetteva nessun suono, lo fissava e basta quasi come a volergli chiedere il perché di quello che stava succedendo. Tornato a casa dalla sua missione in Iraq, Harmon è subito ripiombato nel disagio sociale dal quale era venuto e che lo aveva spinto a firmare il contratto con l’esercito. Non riesce a trovare un lavoro, ha rinunciato ad avere una fidanzata e una vita sessuale a soli venticinque anni. Le sue notti sono infestate da terribili incubi e attacchi di panico. La situazione è così ingestibile che il ragazzo si è dato un ultimatum di un anno. Se a ventisei anni nulla sarà cambiato allora farà ciò che fino ad ora non è riuscito a fare benché ci pensi spesso, si toglierà la vita.
Queste sono solo alcune delle storie presenti nel libro War is Personal. Eugene Richards affronta ogni dramma personale con sobrietà e rispetto. Il suo stile non è né retorico né sensazionalistico, un traguardo notevole se si considera l’argomento trattato. Quante volte si è assistito a interviste dove a farla da padrone era il peggiore giornalismo, quello affamato di morbosità e dettagli scabrosi o della retorica più spicciola? I suoi intervistati sono esseri umani e come tali Richards si avvicina a loro senza cercare mai di trarre profitto dalle loro vite spezzate.
Ad accompagnare i testi e le interviste di Eugene Richards ci sono le foto di Eugene Richards. Si, avete letto giusto. Non si tratta di un caso di omonimia e nemmeno di una svista di chi firma l’articolo. Fino ad oggi sono stati scelti dei romanzi e quei romanzi sono stati analizzati attraverso gli occhi, l’arte, la personale visione del mondo di un artista. Eugene Richards oltre ad essere un giornalista è anche un fotoreporter e dietro alla decisione di trattare il Richards dietro l’obbiettivo come l’artista di questo pezzo, cioè come una persona distinta da quella che ha curato i testi c’è l’assunto secondo il quale cambiando il mezzo espressivo cambia anche il modo di affrontare l’argomento, senza però pregiudicare le affinità che legano i due medium.
L’Eugene Richards fotografo utilizza il dettaglio quanto il totale passando con disinvoltura dallo scatto costruito e studiato a quello istintivo, rubato. L’uso che egli fa della sua macchina fotografica ha del cinematografico. Il significato dello sguardo che riserva al soggetto prescelto sembra infatti cambiare in base al modo in cui questo viene immortalato. Le foto sono tutte in bianco e nero, una scelta che volontariamente o involontariamente riflette la condizione in cui i suoi soggetti sono intrappolati, un mondo dove oramai sopravvivono solo gli estremi e dove non c’è più spazio per le numerose tonalità di grigio che normalmente andrebbero a riempire quello spazio fra il bianco e il nero. Con il bianco e nero Richards rappresenta la quotidiana lotta dei suoi soggetti per rimanere a galla, perfettamente cosciente delle drammatiche conseguenze dovessero un giorno perdere la loro guerra personale.
War is Personal è un libro straordinario e i toni sobri e pacati del suo autore fanno sì che la guerra venga messa a nudo con straziante semplicità. La dignità con la quale Richards affronta sia come giornalista sia come fotoreporter le drammatiche vicende personali dei suoi intervistati fa sì che egli possa fare al lettore un dono importante e al tempo stesso difficile da accettare. Richards lo allontana da tutto il clamore, le proteste e le menzogne che negli anni hanno caratterizzato il conflitto iracheno dandogli così la possibilità di poter guardare ai fatti senza interferenze così che possano finalmente essere visti realmente per quello che sono.