Flavia Gasperetti
La nostra inviata a Festivaletteratura

I vecchi e i giovanilisti

Da un lato Beppe Severgnini e Ivano Fossati, dall'altro Paolo Cognetti e Zerocalcare: a Mantova s'è parlato molto di "giovani". Con le parole (e l'atteggiamento) dei nonni e quello dei protagonisti diretti. Vediamo chi è più utile...

Poniamo che tu sia quello che qui chiamiamo un giovane. Poniamo quindi che tu abbia tra i quattordici e quarantacinque anni. E certo lo so anche io che così ci facciamo ridere dietro, allora conformiamoci ai parametri della Comunità Europea e poniamo tu sia tra i venti e i trent’anni e che tu sia comprensibilmente incerto sulle tue prospettive. Poniamo che in questi giorni tu fossi a Mantova per il Festival e interessato a seguire un incontro dedicato al tema. Ebbene, chi sceglieresti:  due autorevoli figure della generazione dei tuoi genitori, magari un giornalista e un celebre cantautore, oppure due trentenni di successo, uno scrittore e un fumettista, persone che rappresentano, a voler tagliare i dirimenti sociologici con l’accetta, esempi virtuosi di come si può essere giovani, creativi e affermati?

In realtà un siffatto giovane non sarebbe stato costretto ad alcuna scelta, le due opzioni erano entrambe disponibili addirittura nella stessa giornata: presso l’Aula Magna dell’Università di Mantova sono intervenuti sabato sera lo scrittore Paolo Cognetti e il fumettista Zerocalcare;  la mattina stessa a Palazzo Ducale, Beppe Severgnini e Ivano Fossati, in un incontro intitolato Se l’Italia più giovane non si rassegna, avevano già dispensato con il garbo e l’ironia che gli conosciamo quello che però in sostanza potremmo archiviare alla voce “i consigli della Nonna”. “Siate brutali” ingiungevano, ma con chi? Non in generale, a quanto pare, ma con noi stessi: “Siate brutali nel riconoscere la differenza tra la vostra passione e il vostro talento”. Mi è venuto da chiedermi chi è secondo loro l’arbitro ultimo del mio talento, ma temo di sapere la risposta. Infine, siate flessibili, siate tenaci, in alcuni momenti abbiamo sfiorato il “mettetevi la maglia di lana”.

La colpa non è di Fossati e Severgnini, sia chiaro, le cui opinioni su qualsivoglia argomento ascolto volentieri, ma, riflettevo ieri, c’è qualcosa nelle premesse stesse di questo esercizio che non torna. Troveremmo accettabile, valido, ascoltare personaggi autorevoli, poniamo eterosessuali, dare consigli di vita ai gay? Due italiani spiegare agli extracomunitari come superare difficoltà che loro stessi non hanno mai dovuto affrontare?

È una domanda tra le più retoriche, certo che no. Nessuno si azzarderebbe a impostare un dialogo tra parti sociali su queste premesse. Eppure, quando si parla del “problema dei giovani” qui ognuno pensa di poter dire la sua in nome del “siamo stati tutti giovani una volta”. Cosa che, ammettiamolo, costituisce un presupposto assai bizzarro. Ho anche io un padre e una nonna, possiamo parlare tra noi delle nostre rispettive giovinezze con grande e reciproca soddisfazione, ma se da queste conversazioni volessi trarre un viatico per guidare le mie scelte lavorative e professionali ne saprei quanto prima. La loro giovinezza è una terra straniera e così la mia per loro.

I consigli di Fossati e Severgnini sono fuori luogo non solo per palese estraneità ai fatti,  ma perché essere professionisti di successo non basta per elargire consigli – se a Severgnini fosse stato affiancato un analista economico o un esperto di risorse umane forse avrei trovato il cimento meno paternalista e più utile, certo, ma così non è stato.  Era inoltre taciuto un dettaglio che rende l’esercizio un po’ sinistro, la questione del potere, dell’egemonia culturale, del relativo privilegio della propria posizione. Lungi da me porre il confronto tra generazioni su un piano di lotta di classe, di conflitto irriducibile, ma ammetto di essere uscita da Palazzo Ducale in preda ad uno schiumante delirio alla Frantz Fanon. Per cui raccolgo il loro invito e sarò brutale: è come se per un’ora avessi ascoltato Severgnini e Fossati che da sotto le loro parrucche incipriate mi spiegavano con squisita premura come mi devo vestire e che posate devo usare per sedermi alla loro mensa!

Ed è chiaro, possono anche raccontarmi quali siano, a loro avviso, le regole del gioco da una posizione di superiore conoscenza delle regole stesse, ma dal momento che il gioco è truccato, e io sono quello che vi partecipa con mille punti di handicap, perdonate se poi non applaudo piena di gratitudine. E, non prendetevela a male se non compro il    nuovissimo tomo scritto da Beppe Severgnini, Italiani di Domani, testo che i due erano lì a promuovere, avendo pure trovato il modo di monetizzare a loro favore la mia ricerca di impiego.

Brutalità. La brutalità più necessaria in questo momento è dire che un ventenne di oggi conosce i cambiamenti in atto meglio di chi ne ha sessanta, ne è attraversato, costituito. La formazione e la cultura tradizionalmente intese sono importanti ma il suddetto ventenne spesso possiede già altre conoscenze che Severgnini e Fossati non necessariamente riconoscono ma di cui il mercato del lavoro ha urgente bisogno. Qui non si tratta solo di conformarsi alle aspettative di chi ci precede, bisogna anche imporre la propria visione, costruire le proprie alternative. E siccome i ventenni e i trentenni di oggi questo lo sanno benissimo, venerdì non sono venuti a seguire Fossati e Severgnini – ve ne erano pochissimi, e quei pochi ad occhio e croce erano o addetti stampa a fan di Fossati – ma a frotte si sono accalcati in Aula Magna ad ascoltare Paolo Cognetti e Zerocalcare. Una chiacchierata bellissima, quella tra i due di cui mi piacerebbe parlare più a lungo ma ho esaurito troppo spazio per dare fondo al mio livore.

Il titolo dell’incontro Perché non possiamo dirci trentenni cita una delle strisce più conosciute di Zerocalcare e considerata nel contesto in esame sembra quasi un manifesto programmatico. Lo scrittore e il fumettista non hanno parlato in quanto ‘giovani’, futuri qualcosa – “Albeggianti” li chiamavamo durante il ventennio fascista, per dire come cambiano le cose da queste parti. “Quando mi chiamano giovane scrittore mi arrabbio” dice il trentacinquenne Cognetti, “non sono un giovane, sono un uomo”. E l’applauso parte inevitabile perché se c’è una cosa che durante tutto il festival ci siamo ripetuti fino allo sfinimento è che manipolare le parole è il modo in cui manipoliamo la realtà, e la nostra attuale tassonomia generazionale è un modo come un altro di rimarcare, ribadire e ricreare continuamente la subalternità di tanti.

Si può, e i due autori ne sono la dimostrazione, semplicemente essere bravi nel proprio mestiere. Si può raccontare e interpellare la propria contemporaneità, e se lo si fa bene, i contemporanei lo riconosceranno. Si possono avere dei maestri, Cognetti e Zerocalcare hanno parlato a lungo dei loro, usarli per trovare il proprio personale linguaggio. Mi sembra che solo questo conti davvero ed è un aspetto che nella riflessione di Severgnini e Fossato mancava. Brutalità è riconoscere che non è necessariamente a loro due che dobbiamo piacere.

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