"Mandami tanta vita" pubblicato da Feltrinelli
Giovani senza regime
Raccontando in forma di romanzo la formazione di Piero Gobetti e e della sua generazione, Paolo Di Paolo in realtà si interroga sulle condizione di chi cresce mentre si struttura un regime onnicomprensivo. All'inizio del Novecento come oggi
Scriveva Giovanni Papini che anche la giovinezza è una «malattia», affrettandosi a chiarire: «ma chi non ha sofferto questo male sacro non ha vissuto». Così sembra pensarla anche Paolo Di Paolo che passa dal facile sperimentalismo e dal giovanilismo del precedente Dove eravate tutti (2011) al sempreverde e centrale motivo della giovinezza con il recente Mandami tanta vita (Feltrinelli, 160 pagine per 13 euro), mostrando di sapersi liberare dal “complesso di realtà” e dal racconto in presa diretta, confezionando un libro ibrido, a metà tra ricostruzione storica e Bildungsroman. Peraltro avventurandosi nella coraggiosa impresa di mettere in romanzo, seppur per frammenti, la straordinaria parabola esistenziale ed intellettuale di un autentico mito come Piero Gobetti (i cui scritti sono stati riproposti proprio quest’anno all’attenzione dei lettori, in una fresca antologia, La rivoluzione italiana. 1918-1925, dalle attivissime Edizioni dell’Asino di Goffredo Fofi & Co). Quel Gobetti, si ricordi, teorico del «fascismo come autobiografia della nazione», al quale avrebbe fatto presto eco il rimosso G.A. Borgese, individuando, nella degenerazione del fascismo, il conclamato palesarsi del «peccato della ragione» di un intero popolo.
Divagazioni circa le origini intellettuali del fascismo a parte, Di Paolo (nella foto qui accanto) rifugge da ogni intento militante per consegnarci un inno allo spazio concentrato degli anni, per ciascuno decisivi, della gioventù. E si potrebbe dire che alla condizione (vittimista) dei giovani venuti su ai tempi del ventennio berlusconiano segue adesso la prospezione (che si tinge di esemplarità) sull’esser stati giovani negli anni dell’incipiente scalata del regime. Volendo rintracciare un denominatore comune agli ultimi due libri dello scrittore romano, lo si potrebbe cogliere nel tipo di personaggio dello studente-intellettuale: a quello di fine millennio fa qui infatti da contraltare quello anni Venti; entrambi focalizzati sul terreno di uno smarrimento, della crisi conclamata, sospesi tra abulia e tensione utopica. Del resto, di abulico disorientamento a occhi chiusi ci ha anche parlato nel suo limpido esordio, Atti mancati, lo scrittore di vita Matteo Marchesini.
La precocità intellettuale di Gobetti, giova qui da termine di paragone per il protagonista ventiquattrenne Moraldo, lo studente universitario, di umili origini, mosso da velleità artistiche e letterarie, che, arrivato nella operosa Torino di quegli anni, tutto sente congiurare contro l’incolore sfilare dei suoi giorni, alle prese con un bilancio esistenziale sempre, a conti fatti, in passivo. La vitalità instancabile del coetaneo e brillante Piero, diventa così il modello invidiabile di un modo di stare, con i piedi ben saldi, dentro la vita; monito in carne ed ossa a scardinare la torpida gabbia d’indifferenza che lo avvolge, a ritrovare se stesso, «per intero» (Moravia sembra essere un riferimento presente, sottotraccia, nel romanzo). Tuttavia, i tentativi di entrare in contatto con il giovane editore del Montale degli Ossi di seppia riescono vani.
Cosicché le loro esistenze corrono parallele, anzi divergenti: l’uno con tutto se stesso proteso a smascherare le storiche «malattie italiane»; impastoiato, l’altro, nelle sabbie mobili del male di vivere. Come accordandosi a una montaliana «volontà nuova» che gli consenta di affrancarsi definitivamente da quella condizione di stasi, il caso concede a Moraldo l’opportunità di lanciarsi nella mischia, perché possa accadere qualcosa di davvero decisivo: l’infatuazione per Carlotta, fotografa che ai trucchi e alle pose preferisce le verità della strada, lo indurrà a seguirla fino a Parigi; la stessa città che Piero ha eletto a sede del suo volontario esilio, da dove continuare a resistere. I due destini sembrano per un attimo sfiorarsi: ma quando Moraldo riconosce (seduti fianco a fianco), su di una panchina del Bois de Boulogne, l’«oggetto della sua ammirazione», ne rimarrà quasi smarrito, trovandolo assai diverso dal ritratto ideale che se n’era costruito nella sua percezione. E il suo tardivo tentativo sfocerà nell’ennesima occasione persa, allargandosi nella finale considerazione sull’inesorabile correre della vita, oltre ciò che deperisce e s’estingue, con una perplessa constatazione che rimane a mezza bocca: «Se essere come lui significa questo (…), allora meglio».
Nonostante si avverta talvolta un che di ostensivo o scenografico nello schizzare i tumulti dell’animus gobettiano, nel complesso il clima di esaltazione/resistenza di quegli anni è ben reso, come, ad esempio, nelle pagine che descrivono l’adesione irrazional-sentimentale di Amedeo (l’amico più intimo di Moraldo) alle azioni di rappresaglia delle squadracce fasciste.
Il tessuto narrativo agile, articolato in capitoletti alternati, funzionale al riverbero, quasi speculare, tra le vite dei due protagonisti, trova infine il suo baricentro stilistico in una naïveté certo non immune da qualche scivolone di troppo, e che, se ai tempi di Dove eravate tutti ci sembrò artefatta, solo adesso si rivela essere (nel bene o nel male) la cifra più caratteristica e immediatamente riconoscibile della sua narrativa.