Ancora sull'omaggio a Federico Fellini
Elogio delle storie
Il film di Scola è un gesto di speranza e ottimismo: nessuno (neanche la morte, figuriamoci una cattiva vita!) può nulla per fermare il flusso delle esperienze, delle favole e della fantasia. Basta lasciarsi andare
C’è un cinema che cambia, che incalza e che cerca di mutare forma a passo accelerato, per agguantare e mantenere l’attenzione dello spettatore che si suppone oggi essere labile, superficiale e interrotta. E c’è un cinema che persiste, in una forma che qualcuno potrebbe definire tradizionale, forte delle storia e dei personaggi che racconta. Ettore Scola, con il suo Che strano chiamarsi Federico ci regala questa seconda e rincuorante possibilità.
Con mano lieve e memoria solida, ci apre la porta su una narrazione che fluttua fra realtà e finzione, fra bianco e nero e colore, fra soggettività e oggettività, raccontandoci come nascano affetto e film; e come l’affetto e i film siano indissolubilmente legati, per produrre animazione nel senso letterale del termine: ovvero, per dare vita alla nostra anima. Di stanza in stanza e di ricordo in ricordo –dallo studio del nonno cieco a cui leggere libri, alla redazione zeppa di fumo e bozzetti del Marc’Aurelio, ai tavolini di un bar, al teatrino d’avanspettacolo, alle strade di una Roma notturna, ai set del Teatro 5 – Scola ci consegna l’eredità di un’esperienza appassionata che cuce assieme il senso dell’esistenza alla tecnica, ai vizi, alla fascinazione e alla fortuna di fare un film. Si comincia dove si finisce, pare dirci questa passeggiata amichevole di Scola con Fellini e di Scola con noi spettatori: e non si finisce se si cede alla vita e alla curiosità; sgattaiolando via perfino dalla morte, che niente può di fronte al passaggio di testimone del raccontare e ascoltare storie, assieme.
La foto, fatta sul set del film, è di Chiara Tozzi