Ilaria Palomba
Parla l'autrice di "Evelina e le fate"

Tra romanzi e storia

Due scrittrici (molto diverse tra loro) a confronto: Ilaria Palomba intervista Simona Baldelli. Si parla di realtà, di memorie, di fate e fantasmi. E della verità della letteratura quando riesce a fissare sulla carta i sentimenti

Evelina e le fate è un romanzo ambientato in un paesino delle Marche durante la Seconda Guerra Mondiale, scritto dal punto di vista di una bambina di cinque anni, mescola costantemente realismo storico e personificazione di credenze popolari del luogo. Il romanzo è stato finalista al Premio Calvino 2012, di recente pubblicato da Giunti Editore e qui recensito da Andrea Carraro. Dopo averlo letto, ho incontrato l’autrice, Simona Baldelli, per intervistarla.

Da dove proviene il materiale per Evelina?

Da casa mia! Allora, andiamo per gradi. Evelina è mia madre che aveva esattamente cinque anni nel ’44, anno in cui è ambientata la storia e viveva proprio in quel casolare a Candelara, un paese nei pressi di Pesaro, che è il teatro di tutte le vicende che narro. Quasi tutti gli episodi che racconto sono accaduti lì o comunque in quella zona. Ai racconti di mia madre e mio padre (che è Giorgio, il bambino di otto anni che fa la vedetta per i partigiani che appare in un capitolo del libro) ho aggiunto alcune notizie ed altri materiali che mi sono stati forniti dall’ANPI di Pesaro. Come vedi, non ho faticato molto per trovarla, questa storia…

Fate e streghe fanno parte di credenze popolari marchigiane o di un tuo immaginario personale?

Un po’ e un po’. Tutto il nostro Paese è costellato di zone dove vivono “presenze” come quelle che descrivo nel romanzo, che a Candelara, dicono gli abitanti, sono piuttosto fitte. Figure come quelle del libro, la Nera e la Scèpa, abitavano davvero in casa di mia madre ed erano visibili da tutta la famiglia. Come dico spesso, tutto quello che è narrato in Evelina e le fate è accaduto davvero. Fate incluse. Io mi sono limitata a dar loro un nome.

Come sono nati i personaggi? Sono tutti realmente esistiti o ci sono anche delle invenzioni?

simona baldelliI personaggi principali, ovvero Evelina e la sua famiglia, sono certamente esistiti. Si tratta, come dicevo poc’anzi, di mia madre, i miei nonni ed i miei zii. Gli sfollati, che hanno realmente occupato quel magazzino nell’aia dove viveva mia madre, mi erano invece stati raccontati come un gruppo indistinto, senza nessuna personalizzazione né caratterizzazione. Dunque, in qualche modo, ho dovuto inventarmeli, almeno nelle loro individualità. La stessa cosa è accaduta per il gruppo dei partigiani: dopo aver letto alcuni documenti sulle brigate partigiane che operavano in provincia di Pesaro, ho creato i personaggi principali basandomi su alcuni aneddoti ed un po’ di immaginazione… Sara ed Angela, invece, sono ispirate a degli episodi che ho trovato fra i materiali dell’ANPI. Le loro vicende sono accadute a pochi chilometri da Candelara.

Hai lavorato molto sul linguaggio? Che tipo di lavoro hai fatto?

Sì, diciamo che il linguaggio è stata in qualche modo la “fatica” maggiore. Avevo scelto di integrare la storia con alcuni dialoghi in dialetto, per dare maggiore veridicità alla storia e per dare dignità di lingua ad una parlata che a Pesaro, purtroppo, non viene molto parlata, perlomeno in pubblico. Bisognava dunque scrivere la storia mantenendo la fedeltà alla lingua ma anche cercando di non complicare troppo la vita ai lettori che non conoscono il dialetto. Contemporaneamente, poiché avevo deciso di raccontare la storia dal punto di vista di una bambina di cinque anni, quindi analfabeta, che non ha mai visto nulla se non l’aia nella quale vive, mi sono imposta di usare solo ed esclusivamente dei vocaboli che potessero essere credibili nella sua testa e nella sua bocca. Ad un certo punto mi sono accorta che non potevo usare termini semplici come “perplesso”, “moltitudine”, “frequente” ed infinite altre… insomma, la fatica maggiore è stata quella di costruire un linguaggio ricco ed articolato utilizzando un bagaglio estremamente povero di vocaboli. Spero di esserci riuscita.

Hai seguito un metodo preciso per scrivere “Evelina e le fate”?

Non so se è stato un metodo oppure no, sai è la mia prova di scrittura in assoluto. Non avevo mai scritto nulla di narrativa, fatta esclusione dei racconti scritti durante i corsi alla Scuola Omero, non ho nessun romanzo nel cassetto, né nulla del genere. Fino a quel momento avevo scritto solo per il teatro. Io mi sono limitata a scrivere una scaletta degli avvenimenti storici, che dovevano essere certi e circostanziati, sulla quale ho fissato i macro eventi della storia e le vicende dei miei personaggi.

È stato doloroso?

No. Ci sono stati dei momenti in cui ho sentito che toccavo dentro di me delle corde particolarmente sensibili, alcuni nervi scoperti, ma per la maggior parte del tempo sono stata assai bene, seduta al pc, con i miei personaggi. Scrivere per me è una sorta di beatitudine. È davvero la cosa più bella, insieme alla lettura, chiaro.

Come ti sei sentita quando hai saputo di essere finalista al Calvino?

Ubriaca. Letteralmente. Sono stata per un paio di mesi, fino al giorno della premiazione, come se fossi imbottita di elio e svolazzassi ad un palmo da terra. Oltre alla soddisfazione di veder riconosciuto il proprio lavoro, avevo intuito che qualcosa, dal punto di vista di uno sbocco editoriale, stava per accadere. Insomma, stava per passare il famoso treno e dovevo star pronta a saltarci sopra…

C’è stata una parte del libro particolarmente difficile da scrivere, emotivamente parlando?

Diciamo che ho scritto, in punta di piedi, le scene della malattia di mia nonna. Evelina, mia madre, ne soffre ancora e sapevo quanto sarebbe stato difficile per lei, leggerle.

Ci sono degli autori in particolare ai quali fai riferimento?

John Fante, che adoro in tutta la sua produzione; poi Italo Calvino, in particolare quello “fantastico”, di Marcovaldo, della trilogia Barone, Cavaliere e Visconte, per intenderci; Henry James; il Camilleri de Il birraio di Preston.

Cosa consiglieresti a uno scrittore esordiente?

Allora, ammetto che sto per fare una sorta di “copia e incolla” con quanto rilasciato in un’altra intervista, ma sono cose nelle quali credo fermamente e poi, in fin dei conti, copio solo da me stessa… dunque: leggere, leggere, leggere. Poi, salire sui mezzi pubblici per ascoltare la gente quando è stanca, arrabbiata, sconfortata e quindi parla senza filtri e difese (vengono fuori le verità più assolute), non avere mai idee preconcette e navigare a vista, mangiare cibi sempre diversi (le spezie, oh, le spezie!) e capire perché un vino è sempre diverso dall’altro, ascoltare molto e parlare il giusto; andare al cinema, camminare, possibilmente avere un animale in casa, aiutare gli amici. Provare ad occuparsi delle piccole cose in casa come cambiare un interruttore della luce che non funziona o sturare un lavandino. Ballare e cantare, meglio se contemporaneamente. Essere curiosi, curiosi, curiosi. Fare lavorare meno il cervello e più le mani, gli occhi, la bocca e le orecchie. I pensieri sono brutti da leggere, sanno di pistolotto fatto la domenica mattina da un prete svogliato. I pensieri non si vedono, le cose sì. Meno aggettivi e più sostantivi. Scrivere preferibilmente quando si è un po’ arrabbiati (non tristi, ché si è noiosi, ma arrabbiati!), scrivere quando si è felici, ma poi rileggere quando si è arrabbiati! fare leggere le proprie cose a poche e fidate persone, ascoltare tutti ma non dare retta a nessuno, tener conto delle opinioni ma fare di testa propria. La gente ama sentirsi parlare e non appena può dare un’opinione… Infine, sperare nella fortuna. Certo, promuoversi da soli, bussare alle case editrici, alle agenzie, farsi conoscere attraverso blog et similia… ma è dura, dura, dura (a meno di avere tanti Santi in Paradiso…) mandare i propri scritti a festival e concorsi. E sperare di essere finalisti al Premio Calvino, perché allora, qualcosa succede davvero.

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