Invettiva del "turista per forza"
Torniamo a Chiasso
La vita intellettuale e culturale del nostro Paese è provinciale e marginale, i valori identitari sono calpestati o ridicolizzati. Come diceva Arbasino, basta uscire dai nostri confini per rendersene conto
Per Alberto Arbasino che nei primi anni ‘60 la coniò, l’espressione «gita a Chiasso» significava avere l’opportunità di uscire dai limiti del conformismo che infestava una parte dell’intellettualità italiana di quegli anni; una presa in giro di certi costumi, di certi atteggiamenti preteschi o pretenziosi; di beghinerie, finti signorilismi, mignoli alzati durante il rito del caffè. In nome di questa espressione, Arbasino importò (se non per primo, certo diede ad essi una dimensione quotidiana, amichevole, fuori dalle università) i nomi di scrittori, musicisti, artisti, opere, ma anche modi, e mode culturali. Valga per tutti Ivy Compton-Burnett (per chi scrive).
E oggi? Ha ancora senso parlare di «limiti del provincialismo» da noi, senza accennare a ciò che accade sulle coste italiane a partire da Pantelleria? Cosa può significare oggi l’espressione «gita a Chiasso»? Vediamo.
MUSEI. In un mondo in cui l’immigrazione è il fenomeno che segna la contemporaneità, sarà sufficiente dire alle mamme che perché i loro figli e le loro adolescenti crescano come si deve, non tanto è necessario che abbiano i vestiti all’ultima moda o un corpo esile da mostrare, quanto un buon museo, nella propria città? Con quale ente o amministrazione sarà necessario parlare per avere, come a Lione, o a Berlino, un insieme di opere e reperti, che non se ne stiano lì come un accozzaglia di «magnificenze e di bellezze», ma che costituiscano invece un percorso ragionato di civiltà e di cose, di reperti e oggetti, antichi e meno, che ti indichino cosa c’è tra la «nascita, la vita» e (laddove vi sia) «la morte di una civiltà»? Quale gruppo o lobby di genitori per il sociale, per la difesa del bambino, bisognerà consultare perché ci si convinca che la consapevolezza di chi si è, e da dove si viene, (magari per non finire fra le mani del primo femminicida che attraversa la strada) passa soprattutto per l’inserimento nei percorsi formativi, del fatto che gli islamici, i musulmani, i cinesi, esistono più o meno da quanto esistiamo noi, e che facevano arte anche loro (ma va!), proprio come noi? Se è vero infatti che l’identità si costruisce sulle differenze, esiste un modo migliore per insegnarle queste differenze?
Ecco, se entri nel Museo delle Belle Arti di Lione o vai a Berlino questa impressione precisa, ce l’hai. Infatti assieme alle collezioni greche e romane (splendide) non sarà difficile visitare una «collezione delle arti dell’Islam». Non così se entri in uno qualsiasi dei nostri musei, che servono, o a glorificare qualche gruppo famigliare romano, la chiesa (i musei vaticani) qualche sponsor, tutti «enti» insomma che per lavorare, chi per un motivo, chi per un altro, useranno a basso prezzo i poveri precari che si faranno un mazzo tanto, (come succede a Napoli, al Museo Archeologico, per esempio) e neanche li nomineranno nei ringraziamenti. E a riprova di una gestione trasparente e tutta volta alla didattica, sarà sufficiente leggere le domande che vengono distribuite nei questionari, diretti «all’utenza», all’ingresso del Museo delle Belle Arti di Lione: «Chi sceglie le opere? Chi le acquista?», «Da dove provengono gli oggetti? Chi li ha trovati?». Domande che stanno lì a indicare che c’è la trasparenza alla base di quella raccolta di oggetti, non la paura che si scopra che la direttora è stata messa lì per incarichi politici, o perché amica di qualcuno degli amministratori.
ROMANZI&SCRITTORI/ICI. Hanno o no, stufato questi «personaggi di romanzo» italiani che non hanno nessun riferimento con «la società», non dico quella italiana, ma neanche con una immaginaria? Basta o no con questi personaggi che, proprio come quelli degli sceneggiati televisivi italiani, se ne stanno lì nella loro filantropica ricchezza, o nella loro meschina avarizia, troppo simili a certi «cattivoni» dei feuilletons minori dell’altro secolo, o ai «troppo buoni» delle pubblicità televisive? Che senso ha un romanzo che non narri, almeno in parte, dei movimenti di «cose e persone», che attraversano la penisola? Perché da noi gli immigrati nelle storie sono casi rari, e quando ci sono, sono «il luogo comune» sull’immigrato/a? Basta o no, affastellare fatti su «gente» di cui non si sappia da dove viene, che cosa, come, e dove mangia? Chi se ne importa di gente di cui l’autore non sappia che religione professi, che ragione la muova, di quali istinti, voglie, professioni e pulsioni sia fatta? E a proposito di chi i romanzi li scrive, e di ragione&religione. È capitato anche a chi legge, o solo a chi scrive di imbattersi in scriventi, scrittrici, che, invece di indagare sui moventi che spostino la «ragione», o «la religione» magari in riferimento a «etnie» di diverse fedi, si improvvisino fattucchiere, lettrici di carte, magari come secondo lavoro, facitrici di malocchi per interposta persona, o anche no? Che rapporto c’è oggi fra religione e cultura, in chi si occupa di romanzi? E ancora, e scusatemi se insisto: perché gli immigrati che in Italia pubblichino romanzi si contano sulle dita di una mano?
MONUMENTI. Che fare, ridere, pensando a Don Camillo e Peppone quando l’amica straniera ti racconta che a Lione la torre che vedi là, così simile alla Eiffel, è stata fatta di qualche centimetro più alta della cupola della cattedrale perché «è il principio della laicità che deve vincere su quello della parrocchia»? Perché in Italia appena dici che ci sono decine di altre fedi nel nostro paese e che ognuna avrebbe diritto al suo campanile, ti guardano come se volessi buttare una molotov in Piazza San Pietro? È possibile o no, pensare seriamente a un’incidenza meno invasiva della Chiesa nelle nostre vite? E se sì, come si dice da tempo, perché la Città del Vaticano non si fa le sue guide turistiche che comprendano i percorsi religiosi e non, come gli pare, ma solo suoi, e invece la Città di Roma (Lazio), proprio come nelle grandi città europee non si fa le sue di guide, che comprendano i Fori, i Musei Capitolini, il Macro, la Galleria Nazionale di Arte Moderna e tutta altre roba pubbliche così? Perché, se «oltre Chiasso» invece, si fa così?