Domenico Calcaterra
Una riflessione su "Atti mancati"

Scrittori di vita

Torniamo a parlare del bel romanzo di Matteo Marchesini, della sua forza nel riprendere le fila del difficile rapporto tra vita vissuta e scrittura. Quasi un manifesto contro la "fine del romanzo"

Desta sempre curiosità l’affacciarsi alla narrativa dei critici, per quell’ibrido sguardo che aspira a fare romanzo, talvolta con esiti felici. Penso, per esempio, al Giorgio Manacorda de Il corridoio di legno (Voland, 2012), che innalza una delle pagine più incandescenti della storia nazionale (la contestazione e il terrorismo) ad esemplare e cupissima favola, occasione di riflessione sui concetti di rivoluzione e di potere. O, volendo andare indietro di un paio di anni, si prenda il grottesco teatrino ad orologeria messo in moto, con implacabile e chirurgico dettato, da Fabrizio Ottaviani in La gallina (Marsilio, 2011), salutare boccata d’ossigeno controcorrente, tanto nella lingua quanto nella scelta delle cose da raccontare, rispetto al consolidato imperativo di una obliterante narrazione in presa diretta della realtà.

Ad un corpo a corpo totale con il romanzo e le sue possibilità si presta invece il poeta, critico e saggista (tra le ultime cose segnaliamo il suo Soli e civili, 2012) Matteo Marchesini con Atti mancati (Voland Edizioni, 2013, confronta anche un precedente intervento su questo libro sempre su Succedeoggi), se ad aprire il libro troviamo questa citazione-antifona ripresa da Raboni: «Ma in casa dell’impiccato se di corda non si deve parlare di cosa mai parleremo?». E in effetti il libro è costellato di inserti metanarrativi che chiamano in causa le sorti del genere letterario per antonomasia, anzi: trova proprio nel romanzo accantonato e rimasto inconcluso del protagonista, il giovane e brillante intellettuale bolognese Marco Molinari, il nucleo primo, il feticcio di un’asettica esistenza in panne. La tetragona solitudine di Marco viene scossa dal ricomparire di Lucia, l’ex fidanzata con la quale aveva interrotto i rapporti anni prima, subito dopo la tragica morte del comune amico Ernesto (anch’egli mosso da ambizioni letterarie). Lucia lo cinge d’assedio: quasi ossessionata dalla loro Bologna d’antan, lo costringe a riacciuffare luoghi e persone del loro passato insieme. In ciò che assomiglia ad un aggirarsi tra le rovine, Marco è inchiodato alla contraddizione tra l’enormità cristallina del suo talento («io sono tutto nei miei scritti, come un mostriciattolo crociano») e la non meno conclamata incapacità di stare dentro i gangli della vita, tra rigorosa urgenza di verità nella scrittura e sospensione raggelante nel rapporto con gli altri; impantanato com’è nella palude di un quotidiano che lo lascia ebete e indifferente, in attesa di palingenetici cambiamenti. Un disagio esistenziale che si condensa, spesso, in un tic fisico, il rimanere ad «occhi chiusi» (come non pensare a Tozzi?), autodenuncia del suo porsi a testa bassa, nella realtà. Quella Realtà, verso la quale si dimostra per indole refrattario, gli ritorna come onda d’urto nelle parole, dure, di Lucia, che quasi lo psicanalizza, lo rivela a se stesso in tutta la sua arresa nudità.

Marchesini lavora agile di scalpello e bulino nel delineare la condizione bloccata dell’io narrante. Inutile dire che non si fatica a trovare più di un punto di tangenza tra Molinari e l’autore: analogo rigore, straordinaria verve polemica, medesima genealogia di riferimento, stessi cromosomi intellettuali, insomma. Così come per il personaggio di Bernardo Pagi (mentore di Marco, Lucia ed Ernesto), antiestremista nutrito di qualche radice mistica, che cita Chiaromonte e ama Herzen e la Weil, non si può non pensare al ritratto di uno dei più autorevoli critici italiani, Alfonso Berardinelli. All’appartato Pagi sono infatti affidate le impennate di certo più polemiche del libro: sul romanzo ridotto a «genere editoriale» (facendo eco al motto del critico: Non incoraggiate il romanzo), sullo «storicismo della camera da letto», il vecchio trucco di libri smerciati come imperdibili affreschi al nero del Belpaese; contro l’impraticabile utopia d’una militanza intesa (alla Pampaloni) come critica giornaliera, pena il piombare nel servaggio editoriale; l’impietoso ritratto della frangia più intransigente e settaria dell’intellettualità della sinistra italiana (capace di un partigiano e accecato odio culturale), giocattolo diabolico che farebbe la gioia di un comportamentista alla Pavlov; o ancora, la lucidissima definizione del gusto, in letteratura, come speciale cognizione (anche sul piano dell’autobiografia).

Romanzo autobiografico, genealogico e insieme generazionale? Senz’altro. Ma Atti mancati non è solo questo. Marchesini, partendo dal nuovo (?) orizzonte sociologico circa l’inganno sulla «totale inesperienza dei fatti» portato alla ribalta da Scurati e Giglioli, insiste sugli snodi della vita, s’intrufola tra le pieghe del privato dei personaggi che mette in scena. E usa il motivo assai novecentesco della malattia come fuoco, segno unificante di una crisi: quella del corpo, in Lucia (alle prese con un tumore); quella della mente, di Davide (il fratello di Ernesto da anni ricoverato in una clinica); che alla fine agisce da specchio nel quale si riverbera la patologica incapacità del protagonista di tener testa alla vita.

Scandito da una scrittura millimetrata, quasi chirurgica, nervosa ad arte, l’esordio di Matteo Marchesini è un prismatico oggetto che addensa, lasciandoli (talvolta grezzi) a reagire, spunti diversi. Forse, proprio in conseguenza di questa compressione, non un romanzo perfetto si direbbe. Eppure come non leggere nel circolare coincidere, alla fine, della storia del romanzo di Marco con quello delle ultime settimane vissute con Lucia, una faticosa vittoria sulle cose non dette, sul rischio e la tentazione grande dell’afasia? Sta qui, nella dimensione ultimativa entro cui l’autore proietta la partita decisiva sul romanzo, la sua qualità maggiore: come a dire che il romanzo è ancora plausibile quando sa riconciliarsi con la vita, quando si fa esso stesso vita; e la vita si traduce in racconto, diviene finalmente romanzo.

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