Letture di Ferragosto/1
Matisse in porta
Una vita da portiere in uno sport minore. Alle volte, le avventure sui campi e i campetti assumono un valore metaforico inaspettato. Come ci racconta qui un navigato giornalista, critico d'arte e ex nazionale di handball
«Ciccia bomba cannoniere», era il soprannome che toccava ai grassi. E la qualifica non ti portava al centro dell’attacco, come bomber, macché. Al limite, se proprio non c’era niente di meglio da scegliere al posto tuo, il tuo ruolo era dove nessuno voleva giocare. Tra due alberi, o due sassi, o due giacche appallottolate a fare da pali.
«Ciccia bomba cannoniere fa la cacca nel bicchiere» era la canzonatura completa. E in porta ci eri — ci ero — arrivato magari al termine di una conta che aveva visto i capitani scegliersi i compagni migliori, uno alla volta, un bambino dopo l’altro. Finito il binbumbaleggiù, prima si accasavano i più bravi, gli attaccanti. Poi toccava ai medi, i centrocampisti. Quindi, ultime, da destinare in difesa o in porta, le seghe. A questi, a noi, toccava spesso, ma solo idealmente, il numero uno che, fuor di metafora, era la cifra del portiere. La porta era il posto dove nessuno voleva andare, sia che fosse il rettangolo di gioco ricavato nel giardino sotto casa sia quello disegnato col gesso sulla strada o lungo la rampa del garage. E fortunato eri se, in un gruppo dispari, dovendo scegliere tra «Betto o palla e porta», il vincitore della conta puntava su di me invece che sul calcio di inizio più la scelta del campo. A volte, quell’improvvisato capitano ti gettava invece nello sconforto profondo. Preferiva il ridicolo, effimero vantaggio del primo tocco più la scelta della porta. Ed era quindi disposto a giocare, e a far giocare i suoi, uno in meno, piuttosto che avermi tra le sue fila.
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Non c’è da meravigliarsi, lo capite bene, se, arrivato a 13 anni, e scoperto che, alto e grosso come ero, potevo avere fortuna in un gioco, da poco portato a scuola dal professore di ginnastica, Peppe Badaracco, che prevede un ruolo per tutti i fisici, anche per i grassi, io abbia abbandonato le partitelle di calcio nel campetto di sabbia sotto casa, l’arena nella quale mi ero rotolato come un cetaceo spiaggiato, pippa nera a pallone sia che restassi in porta sia che fossi schierato in difesa, e abbia perso la testa per l’asfalto nero, bruzzoloso, dei campi di pallamano di una volta. Fino a sognare (vanamente) di diventare un campione di questo sport cui dedicare anima e cuore, tutta la vita, giocandomela da pivot.
Il fatto che, nonostante la tanta buona volontà, non sia diventato una star ma una mezza tacca, e che proprio questo fallimento mi abbia permesso, per strade diverse e traverse, di diventare un’altra persona con un ottimo e ben retribuito lavoro da giornalista, non ha placato, nel profondo, lo sconforto per non essere riuscito nell’ascesa trent’anni fa ai vertici della pallamano italiana nel Nord-Est operoso e operaio. Brucia ancora sotto la cenere l’invidia per l’exploit di Claudio Schina, mio coetaneo e pivot del Frascati, chiamato — beato lui — a giocare tra le stelle del Trieste, dove è cresciuto e dove ha messo su famiglia, ricevendo in cambio del trasferimento un posto nell’impresa edile Duina che sponsorizzava la formidabile squadra allenata da Lo Duca, fino a diventare – ora che è un blasonato ex – l’allenatore dei giovani “muli”.
Questa mia delusione è alimentata continuamente dai ricordi belli che ho di quello sport che si gioca sette contro sette, l’handball dico: campo che sembra il campetto sotto casa, lungo 40 metri e largo venti; porta stretta di tre metri per due d’altezza, come il portone del palazzo dove sono cresciuto; palla piccola, grande su per giù come un melone, che si tocca solo con le mani e mai coi piedi (eccezion fatta per il portiere che, come nel football, può prenderla come vuole); palleggio che ricorda quello del basket, anche se la palla non la puoi accompagnare, solo schiaffeggiare; e anche il terzo tempo è pensato seguendo i passi di quello della pallacanestro sebbene i passi siano veramente tre, dopodiché o tiri o passi la palla, oppure fai un altro palleggio e allora ne hai a disposizione altre tre di falcate, ma sono le ultime a disposizione; infine, il tiro: che pare preso a prestito dalla pallanuoto in un movimento che parte dalla spalla e che, nella frustata, coinvolge tutti i muscoli di braccio e avambraccio, fino alla punta delle dita. Un ibrido, insomma, la pallamano.
Io sapevo giocare un poco a pallacanestro — mia madre mi aveva portato, quando avevo sui dieci anni, ai corsi del Coni al palazzetto dello sport progettato da Nervi al Flaminio e lì ero stato allievo di un professore, Accettola mi pare si chiamasse, che avevamo conosciuto al camping, al mare, e che sulla spiaggia era dolce e sorridente mentre sul parquet di viale Tiziano urlava come Mangiafuoco e mi terrorizzava (ma così erano anche i maestri che avevo avuto da bambino alle piscine del Foro Italico: agli allenatori, allora, si richiedevano atteggiamenti marziali e modi burberi, da squadrista). La conoscenza del terzo tempo di basket mi aiutò un pochino nei primi allenamenti di pallamano sul campo in asfalto che si trova accanto alla pista di atletica della Farnesina, tra Ponte Milvio e lo Stadio Olimpico. I tecnici dell’Albatros Colonna – ragazzi, una quindicina d’anni più di me, che ne avevo 13 – ci insegnarono a passare la palla, a correre con e senza di essa, a tirare in porta. Ma, innanzitutto, a restare uniti.
In difesa, ci si dava idealmente la mano quando scorrevamo lungo la linea dei sei metri nel tentativo, con il nostro flottare da destra a sinistra, da sinistra a destra, di impedire agli avversari di superare il muro umano composto dai nostri corpi e di presentarsi così a tu per tu con il portiere. In attacco, il filo invisibile che univa era invece quello dei passaggi del pallone, dall’ala sinistra alla destra e, da questa, di nuovo nel senso opposto, cercando il varco giusto per bucare – stavolta noi – la difesa avversaria.
Quel mezzo girotondo mi è rimasto nella mente anche adesso che ho 51 anni e che da 26 ho smesso di giocare. Certe volte mi scopro a ripeterli in ascensore o per strada quei movimenti, quelle finte, quei saltelli, con i miei 105 chili e le ginocchia che scrocchiano a ogni sussulto. È un girare la palla con passaggi diretti o sottomano, un liberarsi di lei il prima possibile, neanche bruciasse, e comunque un attimo prima che il difensore ti è arrivato addosso per bloccarti il braccio, interrompendo così il nostro scalare, il progressivo e sempre più veloce movimento coordinato che avrebbe dovuto portare uno di noi a liberarsi per il tiro.
Lo scalare è un rito circolare che tende a sfiancare i difensori, in attesa che si apra una falla nella loro linea, e che si esegue sempre intorno alla mezza luna, all’area riservata al portiere che nessuno, tranne lui, può violare (ovvero: calpestare, perché entrarvici in volo, se si è capaci, invece è possibile; e ci si può perfino cadere dentro sullo slancio, un attimo dopo però aver scagliato la palla verso la porta).
Solo un giocatore è escluso da questo circolo che, grazie alla palla, lega le persone in una danza come quella di Matisse, come il girotondo che alla materna fanno fare le maestre ai bambini in lacrime per far loro superare la paura dell’abbandono, che unisce, come nell’azione di attacco nel rugby, colossi e giocatori minuti, uomini di peso e ragazzi veloci. L’escluso è il pivot. Certo, anche il portiere ne rimane fuori, perché, tranne casi eccezionali, resta a difesa dei pali. Ma mentre i cinque attaccanti si passano la palla in cerchio, lui, il pivot, se ne sta tra i difensori, a farsi spintonare, ed è da solo, lì, tra gli avversari a creare, come il centro-boa della pallanuoto, varchi e occasioni per gli altri. Non è solo altruista, il pivot. Dipende anzi dagli altri perché i suoi blocchi gli permettono di creare una chance per andare lui stesso in rete, una volta che riesce a liberarsi dalla marcatura asfissiante e che riceve il passaggio improvviso, spesso inaspettato, del suo terzino o del centrale (il play) che ha fintato di tirare e l’ha servito guardando da un’altra parte, così, come due agenti segreti che si passano la borsa tra la folla all’aeroporto, nascosti dietro facce anonime e occhiali scuri, senza dare nell’occhio.
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Più bella di tutti — per me, che ero pivot, e che ho provato a giocare anche terzino pur di prendere parte attiva al girotondo — è però l’ala. Se il giro della palla è veloce, se i compagni riescono a impegnare nella minaccia di tiro più di un avversario, se lo scalare vede la palla passare rapidamente di mano in mano, se il pivot mette bene a segno i suoi blocchi, l’ala ha un mezzo metro di assoluta libertà nel punto in cui la curva dei sei metri muore sulla linea retta di fondo. Su quei 50 centimetri l’ala ha l’occasione di portare a conclusione felice la catena di gesti armonici sua e dei suoi compagni.
Ed ecco allora che prende la rincorsa e salta dall’angolo verso il centro, sola contro il portiere che le si para davanti. Volteggia come un falco, l’ala, e rimane per un attimo, un frammento di tempo silenzioso, sospesa in mezzo ai sei metri, la terra di nessuno. Un ultimo sguardo all’estremo difensore che si gonfia come un pavone nel tentativo di spaventarla, o di vincere la propria paura, ma anche di chiudere il più possibile la visuale della porta, e l’ala scioglie il braccio, scatena la folgore. Lo sfrigolio delle scarpe di gomma sul parquet tace per un secondo. Si sente solo il fruscio della palla (fssssss …) che lascia le mani impregnate di pece e corre verso la rete. Un attimo dopo, sghadang!, il rumore metallico dei ferri del set colpiti dalla sassata. È il suono del gol.
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Andrea Todeschi era l’ala sinistra del Rovereto. Me lo ricordo bene, come un’apparizione e come un incubo, perché andammo a farci massacrare sul loro campo all’aperto una domenica mattina di tanti anni fa — noi l’ultima squadra della classifica, loro la prima — dopo un viaggio di notte in treno passato dormendo sui sedili della seconda classe perché le cuccette erano troppo care per giocatori che si pagavano le trasferte visto che lo sponsor era scappato prima ancora di arrivare; ma io ero felice lo stesso, anche se non entravo in campo, perché avevo 16 anni ed ero riserva. Ma in serie A. Todeschi sembrava un ballerino quando partiva in terzo tempo e portava a conclusione lo scalare partito dall’ala destra. A lanciare lo schema era stato Willie Angeli (poi diventato assessore comunale nelle fila della Lega Nord), a proseguirlo Balic, poi la palla, arrivata al centrale, finiva nelle mani del terzino sinistro. Infine arrivava a lui, all’ala sinistra, al ragazzo con il codino e dal corpo piccolo ma scolpito, non dalla palestra ma dal lavoro nei boschi. Todeschi sembrava una libellula in aria mentre si apprestava a trafiggere il portiere. E davanti all’incanto di tanta grazia ed eleganza, rimanevi incantato. Dimenticavi che la palla era finita nella porta sbagliata. La tua. Sghadang!