Alberto Fraccacreta
La poesia secondo Czeslaw Milosz

Inseguendo il Reale

Sei lezioni tenute dal poeta polacco all'Università di Harvard nei primi anni Ottanta raccolte in un libro. Una preziosa riflessione sul significato e sul valore morale della lirica del Novecento

Le sei lezioni tenute dal poeta polacco Czeslaw Milosz all’Università di Harvard nei primi anni Ottanta, e pubblicate solo ora in italiano (C. Milosz, La testimonianza della poesia, Adelphi, 169 pagine, 15 euro), vertono sul significato e sul valore morale della poesia nel secolo appena trascorso.

Quale testimonianza del Novecento ci offre la poesia? Quale importanza in un mondo soggiogato doppiamente da tecnica scientifica e totalitarismi? «E tuttavia non ho dubbi che i posteri ci leggeranno nel tentativo di comprendere che cosa è stato il Novecento, proprio come noi apprendiamo molto sull’Ottocento grazie alle poesie di Rimbaud e alle prose di Flaubert», tuona Milosz  nel primo – emozionante – discorso sul tracollo dell’Europa.

L’itinerario di questa breve, ma incisiva ricognizione sulla cultura letteraria del nostro continente si anima della scoperta di due posizioni chiave nella storia recente della poesia: la prima è «il tono minore» che contraddistingue un canto cupo, disturbato, in linea col «nichilismo europeo»; la seconda è, invece, quella che sempre concentra in sé una grande speranza, mai sopita, che permette «di sopravvivere a periodi poco propizi».

La prima linea di pensiero è la più visibile, perché trae origine dalle sorgenti del Romanticismo e del Decadentismo: «l’eredità della bohème fornisce una spiegazione per alcune caratteristiche della poesia moderna e postmoderna, così diversa da quella nata in nome della grande speranza». La seconda è latente, una strada “poco battuta” – direbbe Frost – ma comunque viva nel suo diadema esoterico, che pure trasforma le cose in una luce riflessa, separata dalle tenebre del pessimismo. La mano salvifica del lontano parente Oscar Milosz e della pensatrice Simone Weil – testimoni di una concezione più umana e meno solipsistica del sentire lirico – guidano il poeta in un globo letterario di maggiore autenticità dove «la poesia non è più isolata, non è più una straniera nella società», ma che, tramite l’esperienza di un Io condiviso, partecipa delle sventure di un popolo intero e di un’epoca.

Se è vero che la poesia nasce dal dolore, e non da oziose disquisizioni autoreferenziali, la poesia polacca, espressa nella voce soffocata di Anna Swirszczyńska, Miron Bialoszewski e Zbigniew Herbert, si dimostra esemplare perché costruisce la propria bellezza «con i resti rinvenuti tra le rovine» della guerra. Straordinaria pare la prova di Aleksander Wat, il quale riportando su carta all’apparenza «personali afflizioni» diviene al contempo cantore «di tutte le tribolazioni del nostro secolo», per mezzo non di un ripiegamento isterico su di sé, ma forte di una cronaca leale dei fatti. La conclusione personalissima di Milosz è che la poesia abbia essenzialmente un solo compito da svolgere: quella di testimoniare ai posteri – con fiducia e speranza – l’inseguimento appassionato dell’esperienza, della Storia, del Reale.

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