Poesia: la nuova raccolta di Gemma Bracco
L’incipit e il lampo
“Vivere alla giornata” è una confessione sui diversi momenti dell'esistenza, dove trovano dimora i timori, il senso di pace, le malinconie e le speranze. Un poetare fortemente introspettivo ma aperto al mondo, osservato con sguardo leggero. Versi che convincono e che si distinguono per la maestria degli attacchi
Chi scrive in poesia, sa quanto sia complicata la stesura del primo verso, l’attacco iniziale che tante volte ottenebra il poeta e che non sempre riesce, ma quando invece felicemente sboccia, allora può diventare memorabile. Ricordiamo ad esempio quello di Mario Luzi nella sua bellissima poesia Presso il Bisenzio: «La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia», oppure il celebre verso di Montale: «Spesso il male di vivere ho incontrato». Certo, stiamo parlando delle vette della poesia novecentesca, ma tutti coloro che fanno poesia si portano appresso il timore di quel rigo che dà il via alla poesia. Dico questo, perché mi sono parsi decisamente belli i tanti primi versi della poetessa Gemma Bracco, nel suo recente libro Vivere alla giornata (Mondadori, 214 pagine, 12,00 euro). Vediamone un piccolo campionario: «in certe mattine c’è già la notte ventura», «camminando in una mattina bianca sotto gli alberi», «la musica che viaggia nell’inverno», «il giorno sorridendo si adagia nella sera», «ho tolto molte forme dai miei verbi», «il lunedì la pagina vuota è già scritta», «sopra le nuvole passano a bioccoli grigi», «l’estate ingrigisce le sue chiome».
La Bracco riesce a dare il là con lampi geniali, quasi predisponesse in tal modo l’apparecchiatura di una ricca tavola. Sa che dopo quel primo verso, che è riservato «per la luna e per le stelle», si passa a una fase labirintica e avvolgente, e la via che segue «riflette la stanchezza del giorno in attesa» per «un’altra vita che si svolge nell’ombra». Sa che tante cose rimangono sospese. Ma pure che molte cose ritornano e a volte «risplendono nell’ultimo verso». Allora, semplicemente, si può pensare che la poetessa è intenta a raccontare i passaggi dell’esistenza: le nascite, l’avanzare degli anni, che divengono pesanti passi, ma pure i tanti sereni sguardi, compresi gli ultimi che paiono pure risplendere (e ciò vale anche per animali e piante). Volendo ritornare su quei primi versi, si può intuire che siano una ricca originale tessitura, una unica struggente trama. Interpretazione forse arbitraria, ma l’idea che vi sia un discorso che si organizza proprio attraverso il primo verso, è comunque affascinante.
La Bracco ha costruito un libro che pare una lunga intima confessione sui vari momenti della sua esistenza, che spesso si tramuta in una dichiarazione di impotenza ad affrontare la «malinconica giornata», specie quando persiste il «mattino silenzio»; ma pure contengono scatti che si risolvono «nella speranza di pace», nell’attenzione piena a chiedere ancora una svolta proprio alla notte: «la notte mi deve insegnare/ a rendere invisibili i dolori/ e anche con un ritmo così lento/ aprire nuove fasi/ di luce». Poesia, dicevamo, fortemente intima (come spesso capita di leggere nella poesia italiana, decisamente lirica e introspettiva a differenza di certa poesia europea), tuttavia, la Bracco non guarda solo dentro di sé, ma ha pure un occhio attento al mondo, uno sguardo leggero e dolce, che si proietta sulle cose senza alcun clamore, perché la dimensione della sua scrittura è sempre appropriata a un passo che si fa amorevole e ospitale, nell’accezione proprio di un abbraccio alle cose, quel «puro esercizio» alla comprensione dei fatti della vita, quando questi «stupiscono ancora», come nel caso di «un canto fuori dalle righe/ una storia di fedeltà/ un fuoco che riscalda e non brucia…».
Chiaro che la minaccia, la paura, il peso del procedere incombono, l’esistenza ha una cifra dura ed è nelle cose che si possa avvertire il senso della fine (di un amore, di una esistenza), è nelle cose che si senta il rumore marmato dell’inverno: «Mi spaventa l’inverno/ il suo incedere mesto/ il suo festoso sacrificio di sangue…», che si sappia dello stretto crinale che si percorre («conosciamo/ la lama sottile del crinale/ su cui camminiamo/ e l’infinitesimo passaggio/ che attraversa la cruna dell’ago»). Ma c’è pure la visione straordinaria di taluni mattini quando «gli occhi devono stare ben aperti/ per fare scorta di bianco».
Poi ci sono i paesaggi tracciati con la perizia del pittore ancorato al vuoto, nello squarcio di una ferita: «Una nuvola risale dal mare/ come una spuma/ che sparirà in un soffio./ Muri pietre foglie e fiori/ ombrelloni trapassati dalla luce/ e il bordo della marina come un velo/ si protende e si ritrae». Poi c’è la natura, «la ritrovata dolcezza della natura», che la Bracco disegna coi colori più intensi, perché la sente scorrere nel proprio respiro e la sa raccontare in un modo che pare un inchino («le campanule selvatiche fioriscono dal mare»). Non una natura maligna che incombe, bensì una natura che rientra nello stupore che riempie la vita, e che ella abbraccia nel gesto non solo di chi la rispetta ma addirittura di chi può salvarla, perché avverte la minaccia che l’attornia.
L’ultima poesia del libro, Dal mio letto d’inverno, quasi nel voler allontanare il grano delle malinconiche asperità sparse in tanti versi, la poetessa si dà a un’apertura quasi lucente e a un dettato più sereno, diremmo da saggio, che può venire solo quando tanto si è detto e si è visto e si è scritto. Sono versi molto belli che vogliamo infine consegnare ai lettori: «Posso vedere l’orizzonte/ alto sopra la linea dei pini/ il glauco chiarore percorso/ da rare navi/ Le nuvole navigano sopra a protezione/ bianche spume di giorno/ vermiglie al tramonto/ si incendiano velieri colpiti dal fuoco nemico/ si spezzettano separandosi in simboli cinesi/ Le grandi viaggiatrici possono portarci lontano/ o sospingere i loro remi di naufraghi/ fin qui alla nostra isola».