Nicola Fano e Flavia Gasperetti
A proposito del "Costo della vita"/2

Lavorare stanca (talvolta uccide)

Riflessione a due voci sul reportage letterario, sulla scrittura di denuncia e sulla deriva liberista della sinistra italiana a partire da un libro di Angelo Ferracuti dedicato alla tragedia della Mecnavi, ventisei anni fa, a Ravenna

F.G. Devo premettere che quando ho cominciato a leggere Il Costo della Vita (di Angelo Ferracuti, Einaudi 2013, pp. 224, € 19,00) ho avuto delle iniziali difficoltà rispetto alla sua struttura. Si tratta di un reportage narrativo, nel quale si ripercorre la storia dell’incidente avvenuto nel Marzo 1987 nel cantiere Mecnavi del porto di Ravenna, l’incendio di una nave, la Elisabetta Montanari, in cui persero la vita 13 operai. Una storia che andava raccontata e ricordata per rendere omaggio alle vittime, certo,  ma anche perché quella tragedia ebbe dei responsabili, non solo dei colpevoli – seguire le direttrici di queste responsabilità ci porta a guardare in faccia problemi ancora irrisolti del nostro approccio al lavoro, all’economia – Penso in particolare alla riflessione che Ferracuti fa sulla flessibilizzazione del lavoro e a come questo abbia di fatto rafforzato la stretta del caporalato sul lavoro dei cantieri navali.

Anticipo qui le mie difficoltà. Dire ‘reportage narrativo’ può voler dire tutto e niente, uno scritto di questo tipo può prendere qualsiasi forma intermedia tra i due generi, purché ovviamente questo sia a servizio della storia che si vuole raccontare. Mettiamola in parole molto povere e diciamo che ‘reportage’ e ‘romanzo’ sono i due ingredienti base, miscelabili a piacere, che compongono questo libro. Ci sono delle parti in cui avrei preferito trovare un po’ più dell’uno o un po’ più dell’altro. Ad esempio il primo capitolo, dove ci vengono introdotti una galleria di personaggi che includono sia le vittime di allora e le loro famiglie, sia i testimoni che Ferracuti contatta per le sue ricerche. Penso che lì un po’ più di ‘romanzo’ avrebbe giovato, perché tutti questi personaggi sono presentati attraverso pochi dati sommari che disorientano il lettore. Penso in particolare ai tredici operai. Avrei voluto sentire, attraverso le parole dell’autore, che li stavo conoscendo. Cosa che succede certo, per alcuni, ma solo nell’ultima parte del libro. Questo avrebbe reso alcuni passaggi chiave della ricostruzione molto più efficaci, a mio avviso. È sembrato così anche a te?

N.F. No, io questo dubbio sul mischio tra romanzo e reportage non ce l’ho. Il reportage letterario è quello in cui l’autore si prende tutte le libertà che gli pare. “Reportage letterario” è un’etichetta che non etichetta: lo scrittore mette a disposizione del prossimo (del lettore) la propria curiosità. Che è personale, limitata, limitante. Per dire: De Amicis (quello di Cuore, uno dei più grandi autori di reportage letterari) quando raccontava degli emigranti che lasciavano l’Italia per andarsene in America Latina raccontava le facce e le valige. Lo sappiamo oggi che le facce e le valige fanno storia oltre che letteratura. Ma allora? Se l’è inventate De Amicis (Oceano, Garzanti, te lo consiglio…). Il problema è: ma domani, dopodomani, della tragedia della Mecnavi si ricorderà solo la versione di Ferracuti? Ossia: Ferracuti ha fatto il riassunto, fin qui, delle verità possibili e ci ha messo, di suo, facce e valige? Vabbè. Ti rifaccio la domanda: secondo te la storia della Mecnavi, di Ravenna, del lavoro che uccide e del Pci che comincia a allentare la presa (ideologica) sui suoi e sui suoi temi, è tutta in questo libro?

F.G. Lo sapevo che in questa recensione-dialogo finiva che la parte del poliziotto cattivo toccava a me! Io sono d’accordo con te sulla massima libertà offerta dal reportage letterario come genere. Quello che volevo dire, semmai, è che ci sono stati momenti durante la lettura di questo libro in cui avrei voluto più facce e valige, e non per una mia predilezione personale. Penso che il libro assolverebbe più fluidamente ai propri scopi se ogni volta che l’autore torna a riferirsi ad una delle vittime il lettore non finisse per chiedersi “E questo chi era?” Ma vengo alla tua domanda. Ricorderemo solo la versione di Ferracuti? Io mi chiedo se ci ricorderemo anche di questa versione. Perché Ferracuti stesso osserva che, nell’atto di scrivere Il Costo della Vita, il suo voler ricostruire la vicenda della Mecnavi si scontrava con una generalizzata voglia di non ricordare. O di tramandare una memoria semplificata. Nel libro vi è una riflessione che il giornalista Carmelo Domini affida a Ferracuti “Ravenna non è che vuole rimuovere certe cose, come la storia della Mecnavi, ma ricordarle a modo suo. C’è una memoria istituzionale e una memoria spontanea. E la memoria istituzionale secondo me è colpevolmente selettiva.” Una memoria “che non ti fa crescere” continua Domini. Penso che quello che vale per Ravenna valga un po’ per tutti noi. Il lavoro di Ferracuti va senz’altro a nutrire la nostra memoria spontanea, ma la memoria ufficiale rimane quella che è. D’altronde in Italia le due spesso divergono drasticamente, penso alla memoria sulle stragi impunite della nostra storia repubblicana, eppure convivono. Ferracuti ha fatto in questo libro molto più che riassumere la vicenda con l’aggiunta di facce e valige, lui muove da una tesi. La storia della Mecnavi mette sotto accusa le logiche neoliberiste che informano l’organizzazione del lavoro. Nel 2013 questo è vero ancora di più che nel 1987, anche nel campo della cantieristica navale e dei servizi portuali. Questo j’accuse ti ha convinto? A me sì.

N.F. In linea generale, penso che la democrazia non sia più in grado di fronteggiare l’immoralità (accumulo di beni e denari e privilegi a qualunque costo) che sta alla base della dottrina capitalistica: la ragione della crisi (non solo economica e finanziaria) che sta travolgendo l’Occidente, secondo me, è questa, quindi figurati se non sono d’accordo con l’accusa al liberismo? Corrado Guzzanti lo ha spiegato alla perfezione con la sua solita genialità: “Casa delle Libertà (era il nome della coalizione di Berlusconi fino al 2008, ndr), nel senso che ognuno fa un po’ come cazzo gli pare”. Ci siamo consegnati a questa filosofia, i morti (ma anche i poveri, i disoccupati, quelli che escono di senno perché non reggono la competizione) sono incidenti di percorso. Berlusconi non è il male assoluto ma ha incarnato qui in Italia il peggio che è capitato nel mondo. Ci ha messo del suo, ma anche la sinistra ci ha messo del suo per adeguarsi: la filosofia dell’”ognunofa un po’ come cazzo gli pare” è straordinariamente comoda. Ma allora la domanda è: lo scrittore può limitarsi a “denunciare”? Provo a spiegarti e poi ti rifaccio la domanda. Andai a Ravenna qualche tempo prima della Mecnavi: dovevo intervistare Vittorio Gassman che lì avrebbe debuttato con un suo Otello (brutto, per altro…). Ravenna è una città splendida, come Ferracuti ripete più volte. Ma arrivando dalla stazione in mezzo a quella che mi parve la pianura padana notai, poco lontano dalla città, il profilo di una nave mercantile; enorme. E che ci fa una nave in mezzo alla pianura Padana? Sorpresa: Ravenna è una città di mare circondata dalla campagna: il porto è collegato al suo mondo (l’acqua) solo tramite un canale. Mi parve una meravigliosa contraddizione. Per dire, anche Dublino è una città di mare circondata dalla campagna. Ma la contraddizione di Dublino ha alimentato Wilde, Yates, Joyce, Beckett e altri problematici scrittori, mentre Ravenna ha alimentato la Mecnavi (Ferracuti cita dozzine di incidenti analoghi). Vabbè, e Gassman? Domandami: che c’entra Gassman?

F.G. Ma lo so bene che c’entra: Gassman era la quintessenza dell’artista contraddittorio. Una contraddizione vivente.

N.F. Ah, lo sapevi… Comunque Gassman mi piaceva anche perché aveva una concezione medicamentosa della scrittura, e non dolorosa come di norma la vivono i narratori. Ma ti rifaccio la domanda: di fronte a tutto ciò, lo scrittore può limitarsi a “denunciare”?

F.G. Uhm… questo è un domandone. Dipende da cosa intendiamo per denuncia. Per me lo scrittore dovrebbe essere quella persona antipatica che fa tutte le domande che gli altri non vogliono né sentirsi fare ne fare loro stessi. Se è della memoria che si occupa, allora mi piace che vada a provocare, istigare proprio quella memoria “che fa crescere”. Chi fa questo fa qualcosa che supera la denuncia, ci fa sentire tutti a disagio, questo mi piace. Ferracuti in queste pagine ogni tanto lo fa, e secondo me raggiunge l’obbiettivo nel ritratto che fa dell’imprenditore Enzo Arienti, il colpevole più diretto, in quanto proprietario e procuratore della Mecnavi, della morte dei tredici operai. Un personaggio talmente sopra le righe, Arienti, da vestire i panni del colpevole alla perfezione, talmente bene che a quel punto non serviva indagare oltre, farsi altre domande. Ferracuti è bravo nel far emergere la sua‘tipicità’ il suo essere un imprenditore come tanti, per pensiero, approccio al fare impresa, retroterra culturale. E quindi, quando Arienti nella sua follia delirante dice “Voi che parlate di me, andate a vedere alla Fincantieri di Stato”, col suo insopportabile vittimismo ci ricorda quasi per caso una cosa vera e difficile da digerire: i colpevoli diretti della strage a bordo dell’Elisabetta Montanari seguivano una prassi, gestivano il lavoro secondo le pratiche correnti: E qui, hai voglia puntare il dito contro i capitalisti senza scrupoli. Lo Stato, quello che dovrebbe fare le regole e applicarle alle proprie attività è partecipe del problema, connivente. Ti faccio l’ultima domanda: qual è stata la parte, l’episodio, il capitolo, il momento di questo libro che ti è piaciuto di più, cos’è che ti ricorderai de Il Costo della Vita?

N.F. Ricorderò la cosa che mi è piaciuta di più e che mi piace di meno: l’Italia. Il mio Paese, che non mi stanco di conoscere, raccontare e detestare. Morti comprese.

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