Teresa Maresca
Introduzione al pittore inglese

Inghiottiti da Hockney

Un po' come Picasso, un po' come Caravaggio. Il processo evolutivo dell'artista è inarrestabile. Dalla Los Angeles della pop-art è riapprodato al nativo Yorkshire dove ora dà sfogo alla sua passione per il paesaggio, allestendo veri e propri set en plein air per opere di grandi dimensioni pronte a incorporare lo spettatore. Sfruttando le tecnologie più avanzate ma ribadendo l'eternità di lunghi pennelli e colori mischiati all'antica. Lo spiega bene un libro-intervista

David Hockney è forse la più emblematica figura di pittore del nostro secolo, dopo Picasso. Un libro-intervista (A bigger message, conversazioni con David Hockney, di Martin Gayford, Einaudi) ci consente di comprendere lo studio e la complessità del suo ultimo lavoro, ora che non è più l’artista dalle visioni facili o fumettistiche cui ci hanno abituato i pop-artisti. Come Picasso è davvero difficile fissare la sua smisurata produzione in una sola di quelle che sono un po’ artificiosamente definite “correnti artistiche”. Come Picasso è un abilissimo disegnatore e realizza diversi bozzetti prima del quadro, come Picasso ha attraversato diverse epoche artistiche e ne è rimasto via via influenzato, anche se a suo modo, proprio come Picasso. E anche lui sperimenta continuamente tecniche diverse, adattandole al suo scopo. Il suo modo di dipingere è diverso a seconda delle “sue” epoche. Forse sarebbe lecito accostare pittori come Picasso e Hockney ai pittori giapponesi, come Hokusai, che avevano l’abitudine di cambiare nome quando iniziava un periodo nuovo nella loro arte, un nuovo stile. Come a voler dire con forza che quello è un altro periodo, che quella dunque sarà un’altra vita, e che perciò è necessario un altro nome.

A Bigger Splash 1967 by David Hockney born 1937Quando Hockney dall’Inghilterra si trasferisce in California, a Los Angeles, alla fine degli anni Settanta, ed è già un pittore di successo, resistono ancora gli artisti della Pop Art; Hockney è uno dei più anomali fra di essi, e tuttavia è un’esplosione di piscine turchesi monocolore, di palme, di sole. Il colore è steso come nelle serigrafie di Andy Warhol, non ci sono chiaroscuri, le ombre sono blu, per nulla misteriose né inquietanti. Los Angeles è evidentemente il suo ambiente ideale. Ma dopo venticinque anni di California diventa sorprendentemente un pittore di paesaggio (definizione che farebbe inorridire un pop- artista), abbandona Los Angeles, così pop e “mediterranea”, e torna definitivamente where he belongs, come direbbe un rocker americano, dove è nato e nel luogo cui appartiene: uno sperduto paesino dello Yorkshire sulla costa. Vento, distese piatte che portano al mare, una natura rada e un po’ avara, con poche ore di luce negli inverni e bellissime albe estive sulle colline. Che Hockney, da artista tecnologico, ha disegnato sulla carta, ma anche con l’iPhone, l’iPad, filmandole in simultanea con nove macchine digitali ad alta definizione.

Hockney, alla maniera dei maestri del Rinascimento, lavora con diversi assistenti che preparano il “set”, soprattutto quando l’artista lavora en plen air. Cosa che non deve far pensare agli Impressionisti, ma piuttosto ai pittori inglesi del ‘700 che usavano le camere ottiche con gli specchi (ricordate il film di Peter Greenway?). D’altronde lo stesso Hockney pubblica nel 2001 un testo di critica d’arte, Il segreto svelato, per dimostrare che i pittori europei come Vermeer o Caravaggio, utilizzavano dispositivi ottici molto tempo prima della nascita della fotografia. In sostanza ipotizza che Caravaggio possedesse una lente in grado di proiettare diverse parti del soggetto – una mano, un cesto di frutta, una testa – e che queste parti fossero poi messe insieme, nello stesso modo in cui Hockney assembla con la Polaroid i suoi collage dello stesso quadro.

Hockney 2E al quadro di natura come illusione ottica, fa pensare Bigger trees near Warter or Peinture sur le motif pour le Nouvel Age Post-Photographique , un titolo smisurato per un’opera smisurata. Si tratta di cinquanta tele accostate, per una superficie di dodici metri per quattro e mezzo di altezza. Raffigura un normale paesaggio: alberi, un boschetto lontano, un albero più grande in primo piano, case, una strada in curva. Chi non sia un pittore non può avere idea della complessa organizzazione che comporti dipingere un’opera simile tutta insieme, cioè dall’inizio alla fine e senza interruzioni, all’aperto. Hokney ci è riuscito programmando meticolosamente il tutto, con l’aiuto di infiniti bozzetti, telecamere digitali e computer che gli permettevano di controllare continuamente quello che aveva realizzato per metterlo in relazione con quello che andava facendo con lunghi pennelli e colori mischiati alla maniera antica. C’è una foto che ritrae Hokney e alcune persone di spalle che guardano il dipinto, esposto alla Royal Academy of Arts a Londra, nel 2007. È impressionante che sia proprio come il pittore stesso aveva dichiarato: «Non è un quadro che vi fa pensare: vorrei entrarci dentro. La vostra mente è già lì. Il quadro vi inghiotte».

Che gli esiti di questo periodo di Hockney ci piacciano o meno, come a volte accade nella grande produzione picassiana, poco importa. È certo però che il soggetto della sua indagine sia adesso il paesaggio, e che la sua ossessione sia della stessa natura di quella di Monet, o di Turner, o dei pittori espressionisti, per cui l’albero, il mare, la campagna, sono elementi essenziali quanto la figura umana. Ma è anche la stessa ricerca di Caravaggio, che si poneva il problema di rappresentare la realtà in modo non realistico (non fotografico, diremmo oggi) ma sostanzialmente soggettivo. E dunque esagerando le proporzioni di un braccio rispetto al corpo, o di un oggetto rispetto alla geometria della composizione.

Sconcerta che questo ultrasettantenne, già famosissimo e inserito nel Gotha dell’arte al pari delle star del cinema, abbia ricominciato a studiare i maestri del passato e a rifondare una sua personale idea di paesaggio, usando il disegno, i colori e le ombre e soprattutto non dubitando mai della possibilità di fare di nuovo pittura, nel senso classico del termine o meglio nell’unico senso possibile quando si utilizza il termine “pittura”. «La pittura ci sarà sempre», dichiara, e permettetemi di dire quanto ciò sia consolatorio, in un ambito dove pretende di esistere unicamente la sperimentazione, la videoarte e l’installazione. Hockney per fare arte ha usato la Polaroid, il fax, la stampante, adesso l’iPhone e Photoshop, ma considerando tutto questo solo come un mezzo per sperimentare, per poi fissare il tutto con la pittura. La chiave per aprire una porta non è la porta.

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