Il nuovo libro di Antonio Moresco
Il ritorno di Palomar
Ne "La lucina", lo scrittore racconta il peso insostenibile della solitudine prima della morte. Così, come all'eroe di Calvino, al protagonista di questo racconto non resta che assistere alla violenza cieca della natura
Non si fa fatica a comprendere perché Antonio Moresco consideri La lucina (Mondadori, 2013), come scrive nella Lettera all’editore, non il suo libro più significativo, ma senza dubbio quello dal sapore più inequivocabilmente testamentario, come si trattasse della «scatola nera» di tutta la sua esistenza che, nel suo caso, equivale a dire della sua letteratura; l’elemento essenziale cui si può ridurre la sua araldica di scrittore. Costola imprevista scaturita da una paginetta del suo prossimo romanzo (Gli increati), con La lucina Moresco mette da parte la sconcertante retorica del corpo a corpo viscerale, e ci regala un piccolo-grande capolavoro di profonda e segreta intimità, lasciando peraltro balenare un insperato lampo d’ottimismo sulle sorti e le potenzialità (ancora oggi intatte), del romanzo.
La storia è tra le più semplici e in certo senso paradigmatiche: un uomo compie la scelta radicale di ritirarsi dal mondo, in solitudine, in un vecchio borgo abbandonato e deserto di cui è il solo abitante. A turbare il suo isolamento, il puntuale accendersi, ogni sera, dall’altra parte della gola, in mezzo al fitto del bosco, di una lucina. La curiosità lo muoverà a investigare su quel mistero, finché non scoprirà che ad accenderla è un bambino, come lui abitatore di quel luogo.
Ma chi è davvero quel bambino? E quale rapporto li lega? I loro incontri e colloqui si susseguono in questa plaga fuori dal mondo, lontano dallo spazio e dal tempo, dalla vita e dalla morte, entro uno scenario di progressiva indistinzione; immersi in una natura tanto bella quanto rizomatica, spietata, invasiva (per certi versi è, anche, un romanzo sulla crudeltà degli elementi). Con istinto lucreziano, l’io narrante, nel tentativo di sottrarsi alla «cieca torsione che chiamano vita», al «cerchio del dolore creato», affonda in un turbinio di domande, riflette sul destino di solitudine e dolore dell’uomo, su ciò che l’affratella alle altre creature. Interroga, ammirato, le rondini sui loro folli voli, ma non può non sentire, in tutto quel silenzio, lo stridio dell’insetto (inghiottito da una di esse), il cui corpo «continua a soffrire stritolato e smembrato dentro il corpo dell’altro animale».
La filosofia della natura di Moresco, sulla quale, è facile intuire, si proietta l’ombra lunga di Leopardi (da sempre tra i suoi autori di riferimento), non misconosce la capacità prima dell’iniziale stupore dinnanzi al creato, epperò non sa sottrarsi al dilagante orrore per la crudeltà di cui solo la natura sembra essere capace («questo tormento di cellule che lottano e si riproducono»). Ne deriva una visione di sconcertante tragicità che, in maniera inattesa, ci riporta a quell’«inferno di stritolamenti e ingerimenti» cui si rivolgeva, con non meno impietoso sguardo, l’odiato (da Moresco) Italo Calvino in taluni raccontini palomariani (si pensi, soprattutto, a La pancia del geco). Il protagonista de La lucina è un signor Palomar che, arreso, va incontro a se stesso: rinuncia ad ogni ansiosa ricerca di metodo per abitare la soglia, cruciale, dell’ultimativo trapasso. Che cos’è, infatti, questo libro se non un luminoso resoconto del viaggio intrapreso verso il territorio più ostico e ignoto che coincide, per ognuno, sul limitare, al drammatico passaggio dalla vita alla morte, dall’essere all’enigma ineludibile del non-essere? E c’è tutto un filone narrativo che si potrebbe qui chiamare in causa a riguardo, tenuto conto delle differenti declinazioni, fedele a questo tema di fondo. Penso a quel fiore di autentica poesia nichilista che sono Le stelle fredde di Piovene; oppure, per rimanere alle cose più recenti, arpeggiato in minore e connesso al tema dell’amore coniugale, si legga quell’esempio di ariosa misura narrativa che è L’amore lungo di Giovanni Mariotti. Opere che, appunto, come La lucina di Moresco, tentano la scommessa, difficilissima, di restituire l’indicibile sacralità, non evanescente, paradossalmente irreligiosa, di quel transito a cui nessuno può sottrarsi.