Scrittura & Suspense
Inediti d’autore
Un'opera praticamente sconosciuta di Alexandre Dumas dove si narra di lupi e di diavoli. E il romanzo postumo di Antonio Manganelli, capo della Polizia recentemente scomparso, che si rivela abile giallista. Arte nella quale eccelle Carlo Lucarelli, specialmente nella sua nuova storia. Poi c'è il libro-non libro di Eugenio Baroncelli: imperdibile
Nessun “incrocio di spade”, nessun grido tipo “tutti per uno, uno per tutti”. Insomma manca completamente il clima del romanzo “cappa e spada”. Eppure l’autore è Alexandre Dumas che stavolta si occupa del patto stregonesco – fu uno dei primi ad affrontare lo spinoso argomento – tra uomo e Satana, sotto forma del lupo nero. Grati quindi all’editore Piano B, che ci offre pagine raffinate e piene di avventure, senza peraltro omettere il significato emblematico, non tanto recondito, del lungo racconto. Praticamente un inedito (l’opera venne presentata, revisionata, nel lontano ’73). Siamo nella zona forestale della Francia. La fa da padrone nella caccia il barone Jean de Vez, che nel 1780 dimorava in un castello severo e lugubre. Non era un crudele o sadico tiranno, ma quando, con il suo seguito di mute di cani e battitori, partiva per le sue interminabili giornate di caccia (altro evidentemente non aveva o non sapeva che fare), si trasformava in predatore ossessivo che non conosceva altre ragioni se non quella di tornare nell’antica magione con un bottino di carne in grado di esaltare la sua fama.
Aveva dodici cavalli inglesi e quaranta cani francesi. La sua fissa era quella di stanare e uccidere i lupi. A causa di un daino visto e vanamente inseguito s’imbatte, a pochi metri dallo stagno di Sant’Antonio (vicino a Oigny), nello zoccolaio Thibault, che vive sobriamente in una capanna. Questi dà informazioni errate al barone e quindi viene bastonato. Poco dopo gli si presenta davanti un enorme lupo dal mantello nero lucente che gli propone di allearsi con lui, ossia con le divinità sulfuree, anzi di diventare per alcune ore della giornata lui stesso. In cambio l’umile e non troppo arguto zoccolaio può esprimere un desiderio, e vederlo realizzato, a patto di staccare dalla cute un capello. Detto e fatto. Thibault a poco a poco prende familiarità con i nuovi enormi poteri e, vinte l’iniziale paura e diffidenza, ha attorno a sé un gruppo di cani: una sorta di guardia armata.
Il destino vuole però che s’innamori della giovane contadinella Agnelette (il nome scelto non è casuale), alla quale promette un futuro comune. La fanciulla non fa troppo caso al fatto che i capelli del giovane artigiano a poco a poco si fanno rossi. Tuttavia varie vicende e numerosi contrattempi, non ultimo una sfida a distanza con il barone e i suoi servi, “spreca” la potenza della sua magica caratteristica. La sua fama, pur in una zona poco abitata, si diffonde e ormai viene chiamato “Il signore dei lupi”. Thibault forse vorrebbe diventare un Robin Hood, ma la sua indole e la sua goffaggine lo sviano. Tuttavia, solo nella sua capanna dove si rifugia come una solitaria tigre, riflette: «Ripensò ai sogni che da sempre gli avevano sconvolto l’animo, che avevano portato alla disperazione tanti uomini prima di lui». E si chiede: «Perché alcuni uomini nascono umili e altri potenti? Perché tanta disparità della nascita, un fatto semplice e assolutamente identico in tutti i gradini della scala sociale?». Intanto, dopo troppo esitare Agnelette gli sfugge, sposando proprio il barone: lei cercava protezione, senza alcuna smodata ambizione personale. La trama, davvero appassionante e mai banale, fa sì che la fanciulla sia sull’orlo della morte, “il padrone dei lupi” si rende conto del patto scellerato e rinuncia a una potenza che non include l’amore.
Alexandre Dumas, Il Signore dei lupi, edizioni Piano B, 163 pagine, 12 euro
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È un libro oppure no? Materialmente lo è, ma non contiene il progetto di una trama. Sono pagine dense ed enigmatiche quelle di Eugenio Baroncelli, di cultura vasta e ben metabolizzata, da tenere sul comodino: per poi rileggere e inanellare pensieri e considerazioni. Un po’ come succede con Louis Borges, non a caso citato sovente dal nostro autore, ravennate. È anche ironico, sarcastico, spiritoso, talvolta amarissimo. In una specie di esergo avverte: «Mai scrivere un libro. Quando ci siamo lasciati, Teresita mi ha restituito tutto come nuovo: l’anello di smeraldi brilla, lo spazzolino da denti elettrico funziona, il Dvd degli Abba non ha un graffio. Uno di questi giorni potrei passarli tranquillamente a un’altra. Ma il mio libro che le avevo regalato? Be’, quello non ha nemmeno l’ombra di un’orecchia. Quello ha pagine imbronciate, scontente come un depresso, grigie come un malato senza speranza. Ma l’ha letto?».
Cita poi l’amato Borges: «Quiero distrarme de mi destino para escribirlo». E Madame Duras: «Scrivo per non suicidarmi». Charles Simic: «Scrivo per non annoiare Dio e divertire la Morte». Baroncelli riporta la frase di un suo amico, che personalmente trovo fantastica: «Scrivo per farmi passare per un altro, più misterioso di me». Stupenda l’affermazione di Giorgio Manganelli: «Scrivere serve per rendere tollerabile l’esistenza, per dare al lampione che incontriamo l’apparenza di una donna». Tutto vero? Manco per niente, dice l’autore, sconcertandoci: «La verità, la meno temeraria verità, è che scrivere vuol dire invecchiare, una cosa che mi riesce benissimo senza il bisogno di scrivere. Troppa Grazia». Qua e là pensieri fulminanti: «Preferisco la tellurica pedanteria di chi le cose le conserva alla celeste sbadataggine di chi le butta».
Con un indiretto riferimento a Freud, Baroncelli cita nuovamente Borges, e poi scrive: «I sogni? I sogni siamo noi/ Sogno di un’ombra è l’uomo». Sono versi di Pindaro. E lui, il raffinato e un po’ snobistico romagnolo, aggiunge poco più in là: «Può darsi che li tema (i sogni, ndr). Può darsi che i sogni siano bugie còlte sul fatto. Poco importa, tanto nessuno leggerà questo libro». Ecco, qui si sbaglia, per grandissima fortuna di noi lettori.
Eugenio Baroncelli, Pagine bianche (55 libri che non ho mai scritto), Sellerio, 134 pagine, 12 euro
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Se non fosse un libro ma un film, il sottotitolo potrebbe essere “il ritorno dell’ispettrice Greco”. Non escludo possa diventare pellicola cinematografica – ne ha le caratteristiche, peraltro – tuttavia è un libro, più esattamente il secondo con la stessa protagonista dopo Almost blue (Einaudi 1997). Carlo Lucarelli, oltre a raccontare storie e condurre in tv Blu notte, è uno dei maggiori giallisti italiani (nato a Parma nel 1960). È quasi sempre vestito di nero, organizza una documentazione rigorosa e paziente, e non smette mai di lavorare: il resto è fantasia. In quest’ultima prosa la sua disinvoltura narrativa è più matura rispetto alle altre prove, è come se cavalcasse un puledro senza sella. Bologna è sempre al centro degli intrighi psico-criminali. Stavolta c’è più di un accenno al mutamento in peggio di una città una volta idolatrata: più sporca, più violenta, più sgarbata. La poliziotta tenacissima Grazia Greco – nome rubato da una cantante che suona la tromba: è lo stesso autore a rivelarcelo – si trova alle prese con delitti bestiali. È proprio il caso di dirlo. Morsi, petto squarciato, cuore sottratto. Anche se ai suoi superiori non piace, e nemmeno ai carabinieri che inizialmente fanno un’indagine congiunta non escludendo anarchici o terroristi, il mostro seriale viene chiamato “il Cane”. Però la bava che lascia attorno al collo e sul petto della vittima è umana.
È il primo dei tanti rebus. Poi i messaggi, tutti improntati alla rabbia più sfrenata e volgare – la raggia, in dialetto – e tutti con riferimenti, per la verità vaghi, a un trauma. Nelle registrazioni vocali ci sono musica di sottofondo e l’abbaiare di un cane (ma la voce del Cane non comprende vocali: secondo rebus). La Greco, inquieta nel suo privato per i tentativi di inseminazione artificiale e per i sogni-incubi di due gemelli – è una che va per la sua strada, a costo di disobbedire. Al suo fianco l’inappuntabile, e di lei poi innamorato, capitano dei Cc Pierluigi. Insieme frugano ovunque, sottraendosi alla sorveglianza delle rispettive gerarchie. Tra i personaggi, Lucarelli c’infila il suo amico psichiatra Massimo Picozzi, che ha il compito di spiegare le dinamiche intricate della personalità dissociata. In altri termini ipotizza una persona che “ospita” molti alter, dai quali è soggiogato. Alla fine il Cane sarà smascherato. Una vera sorpresa per i lettori, almeno per coloro che non si soffermano su piccoli particolari, tra le righe di una trama mozzafiato.
Carlo Lucarelli, Il sogno di volare, Einaudi, 261 pagine, 18 euro
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Quando il capo della Polizia Italiana, Antonio Manganelli, è morto (lo scorso marzo) erano in molti a credere che nei suoi cassetti ci fossero lettere scottanti, rivelazioni, segreti, comunque cose magari imbarazzanti (personalmente non lo escludo, però: mica ce lo verrebbero a dire visto che quando era a Palermo ha subito attacchi “ignobili”), invece è stato trovato un romanzo noir. Manganelli, durante un soggiorno a Houston, certamente per motivi di salute (“la Grande Sfida”), voleva scrivere un’autobiografia. Ne è venuto fuori un romanzo poliziesco di ottima fattura. S’è avvalso, ovviamente, dell’esperienza trentennale in Polizia. E questo non lo fa scivolare in errori di vario genere.
Siamo a Roma, e l’instancabile ispettore Galasso, con una pazientissima moglie che somiglia molto alla signora Maigret, rovista, di notte, nella spazzatura attorno al luogo dove è stata trovata priva di vita (strozzata) la nobildonna Anna De Caprariis, 65 anni portati con elegante splendore. Cadavere in un’auto. Il frugare di Galasso ha i suoi frutti perché scopre un mozzicone di sigaretta, e relativo Dna. La donna frequentava assiduamente una villa di un’anziana padrona di casa che organizzava partite a carte e si occupava di beneficenza. Indiziati tanti, tra cui un uomo che conduce vita solitaria e strana. Ma anche il nipote, naturale erede della De Caprariis, il suo amico e socio, un medico, un restauratore, o semplicemente un ladro visto che la nobildonna teneva i gioielli accuratamente nascosti in una tasca segreta del golf.
Ma perché, contrariamente alle sue abitudini, la donna era fuori in macchina a ora tarda? Quesito non da poco, sul quale il lettore deve soffermarsi. La lista dei sospettabili è lunga e allungabile. Manganelli talvolta elargisce consigli. Del tipo: «Non bisogna avere fretta, perché la pazienza è una qualità indispensabile per un bravo detective. Anzi, è uno dei requisiti primari per diventarlo». Se la frase non fosse stata scritta, nessuno ne avrebbe sofferto. Ma è solo un peccatuccio di un poliziotto-romanziere che – ovviamente – dipinge la Squadra come una grande famiglia: altruismo, dedizione, bontà, battute divertenti senza essere velenose. Si sa che non è sempre così, ma è un altro peccato che chiede perdono. In fondo è la “famiglia” di Manganelli, che spesso dà l’impressione di scrivere con una certa nostalgia verso un lavoro che ha amato fino alla fine.
Antonio Manganelli, Il sangue non sbaglia, Rizzoli, 303 pagine, 17 euro