Lezioni di scrittura/1
Non basta la parola
Il consigli di un narratore per chi ci vuole provare... Iniziamo dalle base: come si comincia a scrivere (con l'esempio di qualche incipit famoso) e come si diventa autori
Dunque, poniamoci in una ipotetica posizione di partenza. Siamo scrittori. Abbiamo davanti un foglio bianco – più probabilmente ormai un documento vuoto di word con il cursore nero che lampeggia – e sentiamo dentro di noi che abbiamo qualcosa da dire agli altri o più presuntuosamente e coraggiosamente al Mondo, oppure solo a noi stessi. Cioè, esattamente, cosa sentiamo? Vogliamo scrivere in versi o in prosa? Vogliamo narrare o scrivere un saggio, un articolo?
Beh, qui ognuno ha la sua risposta, impossibile immaginare tutte le infinite variabili. Io ho cominciato a scrivere perché non stavo bene e volevo riuscire a dire quello che provavo, prima di tutto a me stesso. La prima cosa che scrissi però fu una poesia d’amore. Era sentimentale, piena di retorica romantica, parlava del Tevere, di un ponte illuminato, pareva una canzonetta: l’avevo scritta per la donna che poi è diventata mia moglie. Dopodiché scrissi un lungo racconto su foglietti di block-notes a quadretti con una penna stilografica. Riempii un centinaio di quei foglietti numerandoli minuziosamente. Non mi ricordo bene di che cosa parlava quella storia. Roba di ufo in giardino, forse, durante un trasloco. Tutti quei foglietti li ficcai in una busta giallina e li spedii a un mio amico che stava facendo il soldato a Pordenone – spendendo un botto di diritti postali. Lui se lo lesse tutto, quel polpettone, e mi rispose a stretto giro che gli era piaciuto, che gli aveva fatto passare due ore di quel tempo interminabile della caserma. Mi parve il commento migliore. Nella lettera di risposta mi chiedeva pure: “Ma farai l’ingegnere o lo scrittore?”. Ecco, in quel momento capii che la scrittura per me aveva assunto un ruolo anche agli occhi degli altri, che non avrei più potuto non considerare. Ho raccontato questo aneddoto solo per dire che ognuno comincia come vuole, come può, come capita, per un amore finito o appena incominciato, per raccontare il sesso, per raccontare un padre ingiusto o brutale, oppure per raccontare un cigno in un laghetto che ci piaceva, oppure per annunciare al mondo che ci siamo rotti i coglioni e non ne possiamo più… Infiniti sono i motivi e i sentimenti che ci dominano quando decidiamo di buttare giù la prima frase della nostra vita.
Quindi immaginiamo di averlo fatto. Per esempio, semplicemente: “Entrò Carla;” che è il memorabile inizio del romanzo di Moravia Gli indifferenti. Memorabile nella sua scabra essenzialità. Una scelta che più “prosaica” di così non si può, credo che ne converrete. Ecco, insomma, Moravia la prima scelta l’aveva fatta, il primo mattoncino l’aveva messo. Quel mattonino era prosa, assolutamente prosa, non poteva e non voleva essere altro. Moravia aveva cominciato già raccontando, già descrivendo un’azione, quella di entrare in una stanza. Moravia cioè aveva scelto, nel suo capolavoro Gli indifferenti , di cominciare in sordina, prosasticamente, nel modo meno aulico e più “quotidiano” possibile. Anche il modo come si comincia una storia può dare l’impronta di quello che andiamo a raccontare e del modo come vogliamo farlo. Può apparire una scelta banale quella di Moravia. Ma non lo è e non lo era affatto, soprattutto a quei tempi, fine anni venti, in pieno fascismo, in cui dominava la prosa virilmente aulica del tardo decadentismo. Lui opta per una lingua polemicamente agli antipodi di quella prosa aulica che andava di moda: “giusto il contrario – scrisse un grande critico, Borgese, recensendo il romanzo – del vescicante calligrafico, del falso e intossicato bello scrivere che ha ridotto tanta prosa e prosa poetica recente come se le avessero fatto un tatuaggio al vetriolo”.
Oppure si può incominciare così: “Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera”. Questo è l’inizio del romanzo più importante probabilmente che sia mai stato scritto, la Recherce di Marcel Proust. Anche qui profilo basso per un’opera che invece poi di basso non ha nulla, anzi ha ambizioni altissime perché è un’opera-mondo, come si dice oggi, specchio di un’epoca, enciclopedica, monumentale, che si autorappresenta nel suo farsi, alimentandosi da se stessa, che racconta l’essere in ogni sua sfumatura. Un’opera che anche nella costruzione sintattica è assai complessa e – come si dice – ipotattica: periodi lunghissimi pieni di subordinate e incisi. Insomma anche in questo caso un inizio in sordina, che ci mette però subito nel giusto rapporto con colui che sta raccontando, con la sua voce straziata, che si confessa e si analizza, che scruta il tempo perduto alle sue spalle per distillarne l’essenza, prima che la morte venga a chiudergli per sempre la bocca.
1° consiglio contro quello che chiamerei il “metodo Moravia” (mettersi comunque tutti i giorni al tavolo di lavoro per un certo numero di ore). Se ti metti al computer e non ti viene niente, non fare come Moravia, lascia perdere. Fai altro. Leggi, vai al cinema, fai sesso ecc. Ma soprattutto leggi, che è la cosa migliore per non sciupare il tempo. Se poi decidi di leggere – che alla fine per uno scrittore è la scelta migliore in termini costi-benefici – leggiti un classico. Qualcosa che ti arricchisca. Ognuno ha le sue letture preferite per ritrovare l’ispirazione e la voglia di scrivere. Può essere un racconto di Maupassant o di Cechov, o L’educazione sentimentale di Flaubert, un racconto di Hemingway oppure un racconto di Cheever o Yates. O l’inizio della Metamorfosi di Kafka. Ognuno ha i suoi feticci.