Ricordo di una grande attrice
Il naso di Rossella
Da Romolo Valli alla peggiore conservazione: ritratto di una diva che ha fatto delle proprie contraddizioni un punto di forza. Tanto da poter essere ricordata come una delle attrici più moderne (e indimenticabili) del "vecchio" teatro.
Ero ragazzino quando vidi Rossella Falk e Romolo Valli nel Giuoco delle parti di Pirandello all’Eliseo (quello che segnò un’epoca del teatro, con la regìa di Giorgio De Lullo per la Compagnia dei Giovani). Capii poco perché avrò avuto al massimo quattordici anni, ma il ricordo indelebile che ne trassi mi impedì – negli anni successivi di guerresca militanza teatrale a fianco delle avanguardie – di considerare Valli e la Falk due avversari da ignorare e superare e abbattere, come pure molti amici degli anni Settanta e Ottanta facevano. Noi si stava nelle cantine (mi presi la polmonite, a forze di serate all’Alberichino) mentre loro frusciavano con i velluti nelle Stanze dell’Eliseo. Andai un giorno a intervistare Paolo Stoppa, nelle residenze dei mostri sacri in via della Consulta, e il grande, grandissimo Stoppa mi parlò solo della sua infezione di “febbre di Sant’Antonio”. Non me ne amareggiai più di tanto perché io ero lì alle Stanze esclusivamente per respirare l’aria di Rossella Falk che con quel suo naso assurdo mi aveva persuaso che si poteva essere affascinanti senza essere belli. Anni dopo lessi una cosa del genere detta da Fellini, per spiegare perché aveva scelto una diva del “teatro serio” per interpretare una donna irrequieta, repressa e intellettuale nel suo capolavoro. Quando gliene chiesi conto, ancora dopo, al famoso Teatro 5 di Cinecittà, Fellini mi disse con la sua voce inconfondibile: perché no?
E perché no? Perché Rossella Falk è stata una contraddizione in termini, nella storia del teatro. Difficile dire di lei che non fosse una grande attrice di teatro (Romolo Valli, Giorgio De Lullo ma anche Luchino Visconti, non so se rendo l’idea), ma di certo non era simpatica. Spigolosa, controversa: negli anni Ottanta, dopo la morte di Valli, scelse la conservazione (in termini di produzione e gestione teatrale), contribuendo al lento declino di quello che era stato il cuore pulsante del teatro romano: l’Eliseo. Vidi dei suoi spettacoli semplicemente imbarazzanti per pochezza di idee, nei quali brillava solo il suo fascino. Ricordo che quando per la prima volta sentii parlare di chirurgia plastica fu perché qualche maligno (doveva essere Antonello Aglioti, forse Bruno Mazzali, ma non ci giurerei) mi disse “ma come, non lo sai? La Falk s’è rifatta il naso”. Non bastò questa insolenza a mettere sotto cattiva luce il ricordo che avevo del Giuoco delle parti.
L’avevo vista, anche, in una ripresa della Bugiarda di Diego Fabbri, commedia bellissima scritta per lei. Anche in quel caso capii molte cose. Primo: un grande autore vive di grandi interpreti. Quando le due cose si incontrano, non solo l’autore (finalmente) guadagna bene, ma scrive anche le sue cose migliori. In altre parole: un autore deve scrivere per gli attori. Secondo: si può sedurre a teatro a qualunque età. Basta saperlo fare: essere giovani non conta. Ecco perché i giovani possono fare i vecchi, in scena, e i vecchi i giovani. Terzo: le storie che funzionano non hanno età: l’importante è raccontare una contraddizione che non si risolve. Si potrebbe pensare che il teatro (la letteratura, l’arte) sia funzionale alla soluzione delle contraddizioni, invece è vero il contrario, serve a metterle in luce senza risolverle. Guai! Tocca a noi, nel nostro piccolo, risolverle o semplicemente capirle.
Questa è stata la forza travolgente di Rossella Falk: non risolvere la contraddizione che viveva in lei. Un’immagine da intellettuale ma una vita da inguaribile privilegiata. Un bagaglio da attrice impegnata sul fronte della nuova drammaturgia (Cocteau, Patroni Griffi) ma pronta ad abbracciare scelte commerciali, viete addirittura. Non bella ma di grandissimo fascino tanto che alle conferenze stampa speravi che ti notasse, che rispondesse alla tua domanda guardandoti in faccia: perché il suo recitare era un regalo. Ma un regalo che lei volta per volta concedeva a uno o all’altra, aristocraticamente, svogliatamente. Sì, proprio come il personaggio di 8 e ½ che per Fellini non poteva avere altro nome che il suo: Rossella.