Nicola Fano
"Rane", il nuovo romanzo del premio nobel

Il frigo di Mo Yan

Il conflitto tra modernità e tradizione, tra consumo e benessere, ritorna nel libro del narratore cinese. La storia di una levatrice che usa la scienza per salvare le vite e per controllare le nascite

Mezzo mondo è in conflitto con la modernità; almeno come la intendiamo noi. Ossia: quella discutibile equazione che recita “benessere uguale consumo”. Oppure: “progresso uguale accumulo”. In nome di queste malintese convinzioni, alcuni di noi in Occidente si sentono parte di un’umanità migliore, mentre altri, a Oriente, proprio nel contrasto a quelle malintese convinzioni si ritengono parte di una moralità migliore. È il conflitto di questi decenni nel quale si consumano sia la crisi del primato occidentale sia la limitatezza della “riforma” islamica. La letteratura è parte integrante, acuminata, di questo conflitto: perché l’atto di “raccontare per iscritto” è tipico solo della cultura occidentale, essendo altrove peculiare, semmai, la narrazione orale. Insomma: scrivere romanzi, a Oriente o nel Medioriente, è già un atto contraddittorio. Eppure molti intellettuali scelgono questa strada e la percorrono provocatoriamente con l’intenzione di costruire nuove tradizioni. Ma spesso il tema di questi “nuovi romanzi” è proprio il conflitto di quelle culture con la modernità.

Leggendo il nuovo romanzo di Mo Yan, Rane (Einaudi, 382 pagine, 20 euro, traduzione di Patrizia Liberati a cura di Mita Masci), m’è tornato spesso alla mente un “vecchio” libro di Tahar Ben Jelloun: Giorno di silenzio a Tangeri. Il perché è presto detto: sono due libri e due scrittori diversissimi (che cosa possono avere in comune la Cina rurale con il Maghreb?) ma entrambi esplorano il conflitto generazionale attraverso le abitudini sociali. Mo Yan racconta di una donna-mito, Wan Xin, ancorata nella tradizione cinese (figlia di un “eroe”, eroina ella stessa) ma aperta alla scienza occidentale. Il che non le impedisce di farsi strumento del regime. In pratica: Wan Xin è figlia di un medico che, dopo lunghi studi e pratiche occidentali, servì la causa maoista nella guerra contro i giapponesi e i nazionalisti. Medico a propria volta, è una levatrice infaticabile che debella gli usi barbari e pericolosi delle mammane nelle campagne adottando criteri – appunto – scientifici. Ciò malgrado, è a lei che il regime si rivolge per gestire la sua campagna di limitazione delle nascite che favorisce la sovrapopolazione maschile a danno delle nasciture donne.

Insomma, Wan Xin è una contraddizione vivente. Adorata dai seguaci (che sono molti), idealizzata dai “modernisti” (che sono pochi), usata dal regime e osteggiata dai tradizionalisti che vorrebbero lasciare le cose come stanno. Ma il conflitto, nel romanzo, si concentra tra vecchi usi e nuove regole: l’arte di Mo Yan (scrittore della contraddizione per eccellenza, meritatissimo premio Nobel per la letteratura dello scorso anno) sta proprio in questo. La ragione non sta solo da una parte: né da quella della scienza né da quella delle mammane né da quella del controllo delle nascite. La realtà moderna ci consegna un mondo troppo opaco perché si possa stabilire se sia bianco o nero, se la verità sia tutta da una parte o dall’altra: se è giusto dire che le ideologie sono morte, questa è la conseguenza. Eppure non è solo una questione politica: è una condizione umana profonda, quella analizzata e messa in scena da Mo Yan. E da tanti, tantissimi grandi prima di lui: ricordate le streghe di Macbeth che dicono a litania “il bello è brutto il brutto è bello”?

D’accordo, ma che c’entra Tahar Ben Jelloun? Giorno di silenzio a Tangeri è il racconto di un conflitto tra padre e figlio nel nome di un frigorifero! La contrapposizione generazionale si concentra su quel moloch del consumo moderno al punto che il padre rivendica il suo diritto ai pasti invecchiati, quasi marciti. Così come i contadini di Gaomi nei libri di Mo Yan rivendicano il loro diritto a restare indietro, a dare nomi antichi alle cose e alle persone. La scienza ginecologica è il frigorifero di Mo Yan: una metafora come un’altra. Dietro la quale non c’è tanto l’opposizione al regime di Pechino di ieri e di oggi, quanto la voglia di raccontare le contraddizioni di un popolo. Con le armi del romanzo; che oggi sono le migliori, lontano da noi.

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