La storia nelle parole (e nei volti) di chi c'era
Elogio della memoria
Ricordare non va di moda da almeno vent'anni, nel nostro Paese. Per questo suscita emozione e stupore il bel libro di Pier Vittorio Buffa, "Io ho visto", che recupera le testimonianze dirette di trenta sopravvissuti alle stragi dei fascisti e del nazisti
Ti sei salvato perché eri il primo. Ti sei salvato perché eri l’ultimo. /Perché da solo. Perché la gente. /Perché a sinistra. Perché a destra*
Sono alcuni dei versi con cui la poetessa polacca Wislawa Szymborska interpellava un’immaginata figura di scampato, evocato nella seconda persona singolare a contenere sulla pagina tutti gli scampati a ciò che sbrigativamente, forse, chiamiamo l’orrore. Gli scampati si salvano per i più imprevedibili motivi, si salvano perché – scomodiamo anche Eugenio Montale – la Storia lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. Si salvano grazie alle coincidenze, agli imponderabili e fulminei capricci del caso, alla fortuna; c’è chi lo chiama miracolo. Pensarci toglie il fiato – Non c’è fine al mio stupore, al mio tacere /ascolta come mi batte forte il tuo cuore, concludeva Szymborska, ed è vero.
Il cuore degli scampati agli eccidi nazifascisti del ’43-‘45 batte forte nel petto di chi legge il nuovo volume pubblicato dall’editrice Nutrimenti, Io Ho Visto. Trenta racconti in prima persona che Pier Vittorio Buffa ha raccolto dalla voce di altrettanti scampati, a Sant’Anna di Stazzema, a Padule di Fucecchio, Marzabotto. Erano bambini. Hanno conosciuto il miracolo di essere salvati e la maledizione del doversi lasciare indietro i sommersi, i corpi uccisi di genitori, famiglie, compagni di giochi e custodire dentro se stessi l’ordigno inesplodibile di questa memoria.
Immagino che per ognuna delle persone che ha accettato di parlare ce ne sia stata almeno un’altra che ha opposto un cortese, ma netto, rifiuto, Pier Vittorio Buffa (nella foto) vi accenna brevemente nella propria prefazione. Chiunque, giornalista o studioso, si sia cimentato con la raccolta di testimonianze individuali si è dovuto misurare con questa diversità di rapporto che ciascuno intrattiene con i propri ricordi. C’è chi ha bisogno di dire la propria verità, trasmetterla ad altri e chi non vuole. L’orrore del passato conserva a lungo le sue radiazioni nocive nella coscienza di chi si è salvato e in quella collettiva, e non manca chi pensa che il regalo più bello che si possa fare a figli e nipoti sia risparmiargli il proprio ricordo, regalare loro un orizzonte limpido dove l’orrore non solo è dimenticato, non è più nemmeno pensabile.
Perché a che serve, e a chi serve, ricordare? Questo è un paese dove la manutenzione instancabile della memoria ha spesso dovuto sostituirsi alla verità giuridica – penso alle stragi impunite della nostra storia repubblicana, penso ai fatti della Caserma Diaz e di Bolzaneto a Genova, e ovviamente agli eccidi nazifascisti del ’43-45: ci vollero quasi cinquant’anni perché i settecento fascicoli custoditi in quello che è noto come “l’armadio della vergogna” fossero oggetto d’inchiesta. Le condanne, quando sono arrivate, sono state poche oltre che tardive. Il nostro tentativo di combattere l’oblio spesso trascende il naturale bisogno di trasmettere, trasformare i ricordi personali in memoria condivisa. Esso si carica di un altro ruolo, quello della riparazione, seppure simbolica. La riparazione dei torti inflitti e subiti, però, è un concetto problematico sia per gli individui che per la società generale. Passa per l’affermazione della verità, e certo passa anche per iniziative lodevoli come questo libro, ma amareggia pensare come nulla possa del tutto attuare una vera restituzione della giustizia a fronte di una verità ufficiale rimasta lacunosa e insufficiente.
Anche per questo Io ho visto è una lettura che non si esaurisce nell’inevitabile commozione, i racconti dei trenta sopravvissuti ci mettono continuamente di fronte all’irrisolto, personale e collettivo. “Non ha parlato perché non poteva, l’avremmo riconosciuto tutti. Era italiano, ne sono sicura” ricorda una superstite all’eccidio di Sant’Anna, Cesira Pardini, del suo aguzzino dal volto celato. Che si tratti del carnefice rimasto impunito, dell’impossibilità di guardarlo un giorno negli occhi, o di ringraziare invece chi ci ha difeso, protetto, soccorso; queste testimonianze sono costellate di conti non chiusi, e come potrebbero? Perché salvarsi non è solo il miracolo di un momento, è fatica quotidiana, è la rinegoziazione continua della propria convivenza con il ricordo.
Occorre salvarsi tutti i giorni, verrebbe da dire leggendo queste pagine vivide. Nel racconto di come ciascuno dei protagonisti è riuscito a firmare il suo personale armistizio con la memoria, di come ha imparato a vivere – ma a vivere ricordando – sta il nucleo di una cosa importante che suona retorico chiamare insegnamento o lezione. Però è lì.
* Wislawa Symborska, Ogni Caso, Scheiwiller, 2009.