Appello al sindaco che verrà
Roma fuori scena
Nei programmi elettorali di Alemanno, Marino e De Vito non si parla di spettacolo (né di cultura, spesso). Eppure la situazione è disastrosa: sperimentazione e nuova drammaturgia non hanno casa, nella Capitale. Bisogna che qualcosa cambi davvero. Con questo articolo, il critico Andrea Porcheddu inizia a collaborare con Succedeoggi.it
Tra un mese a Roma si vota per il sindaco. Ovvio, i problemi non mancano: sarebbero molti i temi all’ordine del giorno. Ma al nuovo primo cittadino – sempre che cambi l’inquilino del Campidoglio, visto che Alemanno si ricandida – toccherà anche occuparsi di teatri.
Siamo quasi certi che sarà l’ultimo dei suoi pensieri: i politici, ormai, non nascondono nemmeno più il totale disinteresse per la vita culturale e artistica, anzi addirittura la osteggiano, a Roma come nel resto d’Italia. A parte vari slogan, ripetuti più per dovere che per seria adesione, sulla “cultura come petrolio d’Italia”, sul “patrimonio culturale”, e a parte i soliti incontri preelettorali in teatri più o meno affollati, la classe politica non presta grande attenzione allo spettacolo dal vivo: e quando lo fa, è solo per tagliare eventuali finanziamenti o per dare incarichi a amici e amici degli amici. Oppure, altra eventualità, se ne occupa perché ci sono gli assessori alla cultura che vogliono fare i direttori artistici – piaga nazionale, salvo rarissime, storiche, eccezioni – con progetti tanto elefantiaci quanto inconcludenti.
E Roma, in questo senso, non fa eccezione.
La Capitale, parlando di teatro, sta vivendo un momento di grave difficoltà. Molti sono i teatri – anche importanti – a serio rischio chiusura, mentre tanti altri si barcamenano per non scomparire. E certo la situazione ha del paradossale: Roma è, ancora, un riferimento imprescindibile della vita teatrale nazionale, sia in termini di produzioni che di pubblico. Eppure segnali di affaticamento e di scoramento sono percepibili tra gli artisti e gli operatori.
Per quel che riguarda, ad esempio, il teatro di ricerca, vale la pena ricordare che Roma – in passato patria delle famose “cantine”, della grande vitalità dell’avanguardia – ha costretto all’emigrazione una intera generazione di registi e attori, quella che si è imposta negli Anni Novanta, imponendosi come vera novità nel panorama nazionale e internazionale: da Roberto Latini a Werner Waas, da Fabrizio Arcuri a Ascanio Celestini che, conosciuto e amato in tutta Italia, da Roma non ha certo ottenuto riconoscimenti produttivi adeguati.
Insomma, tra chi è fuggito a Bologna, chi a Milano, chi in Germania, un’intera generazione si è persa: in tanti anni a nessuno è toccato uno spazio, un luogo dove produrre (se non nei centri sociali), e quindi sono andati altrove, per ricominciare. Dagli inizi degli anni Dieci, poi, sono rare le innovazioni, i nuovi artisti: per fare qualche nome penso a Massimiliano Civica, Daniele Timpano, Elvira Frosini, Andrea Cosentino, Santasangre, Muta Imago… Sono gruppi e artisti di rilievo, senza dubbio, ma comunque proporzionalmente pochi per una città come Roma e dopo di loro sembra venir fuori ben poco.
Gli spazi vivacchiano: alcuni chiudono, una miriade di teatrini vive ai margini dell’illegalità, ingegnandosi per sopravvivere come “affittacamere”; mentre uno luogo significativo come il Teatro Valle, teatro del Settecento, forse uno dei teatri più belli d’Italia, è occupato da quasi due anni (e viene da dire “per fortuna” altrimenti chissà che fine avrebbe fatto).
Intanto il teatro India, sfolgorante negli anni Novanta, seconda sala del Teatro di Roma, è chiuso per restauri, chissà fino a quando. Per l’Ambra Jovinelli è annunciata la chiusura. E il settore “privato”, infine, sembra patire più di altri la difficile congiuntura economica: spazi importanti come l’Olimpico, il Sistina, o l’Eliseo, per i quali il finanziamento pubblico è solo una parte dell’economia, segnano il passo. In questo contesto, è scoraggiato Massimo Monaci, giovane e caparbio direttore del Teatro Eliseo: «Va male, da ogni punto di vista. Sia istituzionale, che commerciale, che di pubblico. Ogni aspetto ha criticità enormi, e il fatto di essere a Roma, acuisce i fattori di crisi. Milano, se pure vive simili difficoltà, ha una rete istituzionale che esiste, è concreta: la Regione Lombardia ha una legge interessante, il Comune di Milano fa da anni una politica di convenzioni con i teatri e, soprattutto in un momento di crisi, queste cose contano. Qui non c’è nulla. A livello regionale c’è il caos piu totale. Diamo tempo alla nuuova giunta Zingaretti, che si è appena insediata, di lavorare. Ma fino ad oggi è stato il caos. Il Comune di Roma non ha una politica, non ha nulla. C’è stata la partita dei teatri di cintura, va bene, ma manca completamente un’idea di sistema. I teatri poi subiscono il taglio del Fus, la fuga degli sponsor privati a causa della crisi, il calo fisiologico di pubblico dovuto alla situazione economica: tutto ciò provoca seri rischi di chiusura».
Ed è curioso, però, non trovare traccia di tutto ciò nei programmi degli aspiranti sindaci. Di Alemanno si sa il pressoché totale disinteresse per il settore. Nel suo blog ufficiale (http://duepuntozero.alemanno.it/) alla parola “teatro” c’è ancora un intervento fatto il 20 giugno 2012 per la presentazione della stagione del Teatro Argentina, dove si legge: «Ho lanciato ancora un appello, dopo l’ultimo fatto da Albertazzi: che gli occupanti del teatro Valle possano uscire dal loro “splendido” isolamento e si connettano con la realtà del sistema teatrale capitolino. C’è disponibilità a valorizzare quell’esperienza, ma deve essercene altrettanta a dialogare con l’amministrazione. Facendo poi riferimento alla Casa dei Teatri, oggetto di una specifica delibera approvata ieri in giunta, ho parlato anche di un “progetto complessivo” sul sistema teatrale romano, che annovera anche i teatri di cintura, ma al cui appello manca ancora il teatro Valle. Inoltre ho annunciato che a luglio partiranno i lavori sul teatro India: sono previsti interventi per una maggiore funzionalità delle sale interne e la realizzazione di una esterna da 500 posti». E tanto basti.
Ancora più disinteressato sembra il candidato del M5S, Marcello De Vito. Forte delle “circa 533 preferenze” avute, l’aspirante sindaco si presenta così: «Nato nel quartiere Monte Sacro ove tuttora vivo e dove ho trascorso meravigliosamente l’infanzia e l’adolescenza, con centinaia di amici e ricordi. Laureato in giurisprudenza, sono avvocato dal 2004». Il programma, dicono, sarà elaborato come ormai prassi in modo partecipato, ma all’orizzonte non si intravede la parola “teatro”. Più lirico l’approccio di Ignazio Marino, candidato sindaco per il Pd. Nel suo sito (www.ignaziomarino.it) sembra che Roma possa trasformarsi magicamente in Stoccolma o Parigi. Nella sezione “una città che funziona” si legge: «Una Città quindi più attenta al decoro urbano, che chiede ai cittadini di prendersi cura di ciò che appartiene a tutti e che offre spazi pubblici rinnovati, puliti e sempre gradevoli, a partire dalle periferie. Significa avere occasioni di divertimento e di apprendimento pensate appositamente per i più piccoli, ma dove anche i grandi possono ritrovarsi e apprendere, ad esempio assistendo ad uno spettacolo in una delle nostre bellissime piazze che il mondo ci invidia». Poi, nella sezione “una città che attrae” il senatore Pd ribadisce: «Cultura, arte, innovazione, ricerca, ambiente: è qui che ci sono le direzioni dello sviluppo di Roma, proprio dove c’è la sua Storia. È su questi settori che dobbiamo rilanciare un new deal di sviluppo e nuova occupazione, integrando le eccellenze di Roma in un piano di crescita strutturale e complessivo, in cui ogni pezzo sia collegato e valorizzato». Bei propositi, non c’è dubbio.
I candidati si sono espressi – sulla stampa locale – per quel che riguarda il Festival del Cinema, ma nemmeno una parola su Teatro di Roma o su quel Teatro dell’Opera che, molto faticosamente, cerca di recuperare identità e dignità.
Intanto però i problemi restano sotto gli occhi di tutti, e il sistema teatrale romano è ben lungi dal funzionare. Per fortuna ci sono eccezioni, come il Teatro Palladium, vera fucina (privata) di sostegno alle giovani compagnie – ad esempio, è in corso questi giorni il festival Teatri di Vetro – e di apertura al resto del mondo. O come l’Auditorium, vera macchina da guerra, che tutto ospita e tutto macina, basti pensare all’ultimo “festival” diretto da Patti Smith con straordinario successo. Ma sono, appunto, eccezioni.
Resta il fatto che il settore sembra essere sempre più abbandonato a se stesso, sempre più gerontofilo, sempre più provinciale: Roma è sempre più lontana dalle grandi rotte internazionali, dai grandi circuiti. Le poche volte che un artista di caratura mondiale (sia Peter Brook o Wim Vandekeybus) capita in città sembra un evento unico e irripetibile, mentre dovrebbe essere la normalità per una capitale europea. I cartelloni di Londra o di Bruxelles, di Losanna o di Amsterdam sono incomparabilmente più ricchi e vivaci di quelli romani.
Ci penserà il nuovo sindaco? Lo scopriremo presto.