Glauco Mauri è uno splendido Krapp
Beckett allo specchio
Il grande attore, insieme a Roberto Sturno, torna a mettere in scena l'autore irlandese. Ne viene fuori un magnifico sortilegio scenico dove il senso del "ricordo" assume in senso concreto di un nastro antico che gira a vuoto su un magnetofono
Non perdetevi Glauco Mauri che fa L’ultimo nastro di Krapp! Anche se lo avete visto negli anni passati, anche se ne ricordate ogni sfumatura emotiva, anche se ricordate il rumore sordo di quella vecchia bobina del magnetofono che chiude lo spettacolo, anche se avete nell’orecchio la voce sublime dell’attore che scandisce bobiiiina, andate al Piccolo Eliseo di Roma: troverete di sicuro qualche nuova soddisfazione.
Dunque, prima la cronaca. Glauco Mauri e Roberto Sturno stanno girando l’Italia (con successo) con uno spettacolo intitolato Da Krapp a Senza parole diretto da Mauri medesimo. È un centone di cose beckettiane: un prologhetto dove i due, dentro due bidoni à la Finale di partita dicono alcune battute sparse di Aspettando Godot (l’impianto scenico è di Francesco De Summa). Poi ci sono brandelli di interviste rese negli ultimi radi anni della sua vita da Beckett. Poi una poesia; poi Respiro (un quadro sinistro, magnifico a proprio modo); poi un’altra poesia (con il contrappunto musicale composto da Germano Mazzocchetti); poi Improvviso nell’Ohio (strepitoso); poi Atto senza parole (entrambi con Roberto Sturno, bravo, un po’ alla Jouvet). Intervallo; il secondo tempo è tutto L’ultimo nastro di Krapp con il grandissimo Mauri che gigioneggia, allunga un po’ la tessitura originale ma gioca da maestro con i nastri di sé giovane narrante, incisi quarant’anni fa, alla prima prova con il monologo struggente del vecchio stitico che mangia banane e vomita memorie al magnetofono. Il tutto, dall’inizio alla fine, intervallo incluso, per un’ora e tre quarti che lo spettatore penserà – di sicuro – d’aver speso nel migliore dei modi possibili.
Perché? La cernita delle dichiarazioni beckettiane poste a suggello dello spettacolo lo dicono: non ci sono spiegazioni tematiche, politiche, filosofiche nelle mie opere – confessa Beckett – ma solo l’intenzione di emozionare chi vede e chi legge. Cosa che puntualmente accade. Accade perché ogni spettatore alle parole evocative di Beckett (ora alte ora basse in un’altalena emotiva straziante) ritrova in sé ragioni ed emozioni perdute. Lo sconcerto di sé neonati (Respiro) La madre morente (Krapp), l’amante perduta (ancora Krapp), la moglie che prima o poi sarà perduta anche lei (Improvviso nell’Ohio): è come con Shakespeare. Le cose della vita sono più semplici di quanto appaia. I sentimenti seguono strade proprie che conducono sempre alle medesime, banali emozioni. E il compito del teatro è riprodurre questi percorsi emotivi, non fare politica o poesia. Nel senso che poesia e politica – eventualmente – non possono prescindere dai sentimenti basilari. E se evochi questi, raggiungi anche quelle. Non a caso Beckett e Brecht, pur opposti, non si combatterono mai apertamente…
In pieno Novecento, in pieno storicismo marxista, Beckett è l’eccezione che conferma la regola. E infatti ci emoziona anche oggi (grazie, Glauco Mauri e Roberto Sturno!) quando il suo tempo storico è apparentemente passato. Ci emoziona perché ha oltrepassato i confini della storia per conficcarsi come una spina nella coscienza degli uomini che devono combatte con i sentimenti. E si sentono per ciò stesso rappresentati dai classici. Ebbene, come Shakespeare è un nostro contemporaneo, così pure lo è Beckett, che tuttavia volle morire prima della caduta del Muro, prima che il (suo) Novecento finisse e si trasfigurasse.
E qui entra in ballo Glauco Mauri. Perché è innegabile lo specifico sgomento che provoca nello spettatore ascoltare la voce dell’attore incisa quarant’anni fa. In un testo che basa il suo senso proprio sulla distanza. Non è solo un vezzo da attore; non un artificio alla Walter Benjamin (e, pure fosse, tanto di cappello!), ma proprio il senso ultimo dell’opera di Beckett: la dimostrazione che il tempo storico è una convenzione e che la vera aspirazione degli uomini (di quelli consapevoli di sé, almeno) è superarlo. Superarlo in fretta per andarsene con meno clamore di quando si è arrivati. Questo, del resto, è l’unico modo per sconfiggere la morte la quale non è che il correre continuo dei tempi storici. Come ci ha insegnato Beckett, lode a lui!