Che c'è dietro le minacce di Pyongyang?
Le follie dell’imperatore
Davvero la Corea del nord vuole scatenare la guerra nucleare? Kim Jong-un deve mantenere a tutti i costi il potere: sfidare il mondo potrebbe essere la sua unica arma per evitare un colpo di Stato militare interno. Ecco perché bisogna temerlo.
Sarebbe ingiusto e pericoloso derubricare il dittatore nordcoreano Kim Jong-un a pazzo scriteriato. Nell’escalation militare che sta portando la penisola coreana pericolosamente vicina a una guerra nucleare c’è molto, ma non c’è pazzia. In realtà le minacce, i proclami e i gesti molto concreti – come la riaccensione del reattore nucleare di Yongbyon – ordinati dal “giovane maresciallo” sono mosse studiate su una scacchiera lunga migliaia di chilometri.
Pyongyang è alle strette, su questo non ci sono dubbi. Dopo 60 anni esatti dalla fine della Guerra di Corea – che comunque si è chiusa con un armistizio, non con un vero trattato di pace – la situazione interna è disperata. L’Unione Sovietica non esiste più, la Corea del Sud fa invidia a quasi tutti i Paesi europei per la sua crescita economica e persino la Cina – ultimo grande sponsor del regime stalinista – sta iniziando a ritirare l’appoggio incondizionato che aveva garantito al suo vicino per decenni.
Il motivo è semplice. Da una parte c’è una maturazione dello scenario asiatico, con Pechino che cerca – fra alti e bassi – di guadagnarsi un posto di rilievo sul palcoscenico internazionale e uno da padrone su quello asiatico; dall’altra ci sono le sparate sempre più pericolose dei dittatori del Nord. Ma se Kim Il-sung aveva un sogno – quello del socialismo coreano – e soprattutto aveva i soldi di Mosca, suo figlio Kim Jong-il ha dovuto iniziare a fare i conti con la morte delle ideologie. Il nipotino, attuale leader supremo, si ritrova con un pugno di mosche in mano.
A questo scenario va aggiunta un’ulteriore riflessione che riguarda la situazione interna del Paese. Su 22 milioni di abitanti, circa 3.5 sono militari; il resto vive fra agricoltura e pochissimo artigianato interno. La situazione industriale è praticamente nulla, se si escludono le fabbriche di motociclette (veramente deleterie alla vista e al tatto) e le miniere di carbone, oramai comunque appaltate alla Cina. Resta il terziario, ma con un solo campo: i cartoni animati, di cui i nordcoreani sono egregi animatori.
Soldi non ce ne sono e gli aiuti internazionali sono fermi dal dicembre del 2008, quando la Corea del Nord si alzò dal tavolo dei Colloqui a sei sul disarmo nucleare per non tornarci più. Quei pochissimi convogli che riescono a passare – quasi tutti provenienti dalla Chiesa cattolica o dalle denominazioni protestanti del Sud – sono razziati dai militari. Mentre il popolo muore di fame.
Il giovane Jong-un conosce la situazione e sa benissimo che potrebbe essere – primo in famiglia – deposto da un colpo di Stato militare più disposto a trattare con i padroni cinesi. Dalla sua, il dittatore ha gli esperti del programma nucleare – che sta coccolando da anni – e praticamente tutti i pretoriani del Servizio di sicurezza interna, spie e assassini fino a ora fedelissimi del trono. Cosa vuole? Vuole sopravvivere senza cedere un’unghia del potere ottenuto dal nonno e consolidato dal padre.
Per farlo non può cedere alle richieste della comunità internazionale: così facendo passerebbe per debole, perderebbe il sostegno dei fedelissimi e quello dei militari della Bomba. Gli rimane solo la voce grossa, che in questo caso si identifica con la minaccia di una guerra atomica. Lui non vuole farla, perché sa che sarebbe spianato un attimo dopo. Ma come diceva il poeta (Jim Morrison) è meglio morire in una fiammata che spegnersi lentamente.