Altre letture: autobiografia che passione!
Non c’è più storia
Dalle biografie reali dei padri (Valerio Magrelli e Maria Carla Fruttero) a quelle metafisiche (di Eugenio Baroncelli), a quelle inventate (di John Banville): l'importante è che la vita sia un romanzo...
Il tema del padre è molto ricorrente in questo periodo e fa da baricentro sia alla narrativa che alla saggistica. E la poesia, da sempre attenta alle figure genitoriali, non è da meno. Valerio Magrelli (Roma, 1957), uno dei migliori poeti italiani di oggi, affronta la figura centrale della nostra esistenza anche con un poetare che si fa prosa, scardinando così l’ingabbiamento di generi. Prosa, dicevo, ma il tono che unisce riga a riga è squisitamente poetico, a testimonianza del fatto che la poesia può finalmente spalmarsi su stili non rigorosamente canonici. Con ironia affettuosa, ma anche dolorosa, l’autore ci informa che suo padre nacque il 21 gennaio del 1921: una data “curiosa”, coincidente con la fondazione del Pci e rinviante alla decapitazione di Luigi XVI di Francia. Il genetliaco comprende dunque un regicidio e la “forza insurrezionale e sovversiva” dell’Italia del primo dopoguerra.
Magrelli poi, in una pagina particolarmente toccante, lo ricorda come “vecchio acerbo, esacerbato, vulnerabile, uscito da un secolo che pure aveva inventato la psicoanalisi e gli psicofarmaci: lui se ne tenne lontano, per scetticismo, diffidenza, paura. Se in ultimo abbracciò la religione, fu come un succedaneo. Povero figlio di un maresciallo, mandato in guerra a vent’anni, senza una guida, senza sapere neanche cos’è una guida. Avrei voluto essere suo padre”. L’antidoto vero di quell’uomo, ci rivela ancora il poeta, era il calcio, rimedio per lui “veleno per me”. E così si va al dolce rimprovero di aver fatto indossare al figlio di sette-otto anni “una divisa della A.S.Roma Calcio”. Episodio che si pianta come un chiodo affilato nella memoria: “In quello sguardo sgomento mi ritrovo ancora per intero, mezzo secolo dopo o giù di lì”.
Valerio Magrelli, Geologia di un padre– Einaudi- pagg.137- 18 euro
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Un intrigo familiare che parte dall’Irlanda (paese natale dell’autore) e finisce a New York. Una trama dipanata con feroce attenzione ai particolari, cui Banville delega la costruzione psicologica di un gruppo in vari interni, tra bugie, delusioni, sconforti, misteri e anche delitti. John Glass, già noto giornalista, accetta (per un milione di dollari) l’incarico di scrivere un libro su suo suocero detto Big Bill, ricchissimo ex agente della Cia ed ex imprenditore. Materia che si fa subito scottante quando Glass chiede l’aiuto di Dylan Riley, giovane esperto di informatica, abilissimo informatore. L’ormai apatico e disorientato giornalista, secondo marito di una donna algida che pare muoversi in un sipario anni Venti, si blocca quando qualcuno toglie la vita a Riley con un proiettile nell’occhio.
Poco prima della sua morte riceve la telefonata del “mago” di Internet ed è per questo che sarà interrogato dalla polizia. Glass, dotato di pazienza coniugale e anche di un’amante, inizia a fare ricerche dirette all’interno del suo gruppo familiare, scoprendo che il nervo scoperto è la morte, curiosamente simile a quella dell’informatore, di un collega del suocero. Quest’ultimo, pur turbato dinanzi a una verità che potrebbe essere scoperta nella sua misteriosa interessa, si limita a dire che il suo amico-nemico, era sì “buono”, ma era anche “una delle zanzare della vita”. Dietro a quell’ambiguo legame c’è ben altro. E Glass si trova più che mai a essere uno straniero: in casa sua, a New York e nella stessa America della quale coglie i lati peggiori.
John Banville Il buon informatore – Guanda- pagg.173, 15 euro.
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Un libro singolare, composto da “biografie metafisiche”, sia di persone note che di quasi o per niente note. Esistenze reinventate, interpretate, poco importa come. Hanno tutte un tratto comune, ossia uno stoicismo malinconico, a volte testardo e/o fallimentare. C’è anche Francois de Chateaubriand, “inventore della malinconia moderna”, accerchiato da fantasmi e convinto di doverseli portare dentro per tentare una via di fuga. Sotto il cielo parigino, scrive Baroncelli, “vagavo quasi povero e quasi dimenticato come lui…come se fossi uscito da uno dei libri che lui aveva scritto e io non avevo letto”. Domina la nebbia mentale, così favorevole all’invenzione degli stessi ricordi.
Cammina anche Robert Walser, “che non è fatto per stare seduto, ma per andare”. Una passeggiata dopo l’altra dopo aver spento la sigaretta nel portacenere di un altro:”Il silenzio delle strade ha qualcosa di amabile e misterioso. Perché cercare altre avventure?”. C’è poi un tizio che a Pola, all’inizio del Novecento, si appassiona del cinema. Però si ammala agli occhi. Sì, proprio lì. E quindi “non vide la luce dei film, che sono individui, ma l’ombra del Cinema, che è una figura platonica”. E a proposito di vista, compare Edipo, “che fu parricida al mattino, incestuoso a mezzogiorno e cieco la sera”. Non c’è speranza per lui, affacciato sull’abisso:”E’ tutto inutile, perché la morte è dappertutto”.
Eugenio Baroncelli, Falene (237 vite quasi perfette)- Sellerio- pagg.281, 14 euro.
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Naturalmente molto affettuosa la ricostruzione degli anni passati con il padre, Carlo Fruttero, scrittore, giornalista, polemista, inventore di collane editoriali e, ovviamente, sodale di Franco Lucentini col quale all’inizio degli anni Settanta formò la famosissima coppia geniale dalla cui penna nacque “La donna della domenica”, raffinatissimo giallo ambientato a Torino. Il romanzo li impegnò, tra alti e bassi (euforia e sconforto), oltre cinque anni. Il titolo provvisorio era “La signora torinese”. Un parto lungo e talvolta difficile. Ricorda la figlia: “Essendo due perfezionisti, Franco soprattutto, era impensabile “tirare via” e così i tempi si allungavano a dismisura e il romanzo non usciva”. Ma quando comparve in libreria, nel 1972, fu successo immediato. Di qui alcuni problemi per una ragazza dal cognome ormai celebre, ragazza dalla quale tutti automaticamente aspettavano esercizi di alta qualità paterna. Non fu così, anche se non fu un disastro. In modo leggero, Maria Carla ricorda le sue sensazioni accanto ai due consoli del romanzo, affiatati, uniti in molte idiosincrasie: “Cominciò così la contaminazione genetica occulta: ogni volta che aprivo bocca in loro presenza stavo attentissima ai termini che usavo, appena il sopracciglio di uno dei due si inarcava minaccioso capivo che quella parola non andava bene e la registravo nel mio nuovo database DIVIETI, che con gli anni crebbe a dismisura”.
Infine ritratti di familiari e di amici (Citati, Calvino, per citarne solo due), il clima tranquillo e ciarliero di Castiglione della Pescaia, sul litorale grossetano, seconda residenza di Fruttero. Per arrivare ai giorni della malattia e del declino, giorni accompagnati da una bizzarra disinvoltura nel vestiario (le famose espadrillas gialle con cui lo scrittore si presentava ai premi e alle riunioni in suo onore). Fruttero, che era riuscito a continuare a scrivere romanzi anche senza Lucentini (operazione che non aveva creduto possibile, all’inizio del suo lutto), continuerà, con l’aiuto informatico della figlia, a spedire a La Stampa note e noterelle. Fino all’aggravarsi delle sue condizioni. Che accettò, facendo quasi propria un’espressione ricorrente nel frasario di Lucentini: “E che sarà mai!”.
Maria Carla Fruttero, La mia vita con papà, Mondadori – pagg. 260, 18 euro.