Leo Carlesimo
La seconda parte de "Il commercialista"

L’ultimo giorno

«Sono le sue istruzioni… Sì, Fabrizio ha lasciato un biglietto. L’abbiamo trovato sulla scrivania. Parlava solo della cerimonia funebre, nient’altro, nessuna spiegazione. L’ha voluta così: qui e in forma laica, con cremazione...»

Riassunto della prima parte. Guido, dirigente d’azienda, legge sul giornale che un suo ex-compagno di scuola e d’università, Fabrizio, commercialista della stessa ditta, ha ucciso con un fucile da caccia moglie e cognato e tiene in ostaggio i figli, asserragliato nella sua casa circondata dalla polizia. In ufficio, l’ordinaria giornata di lavoro è sconvolta dall’accaduto, impiegati e colleghi sono in agitazione, non parlano d’altro, seguono l’evolversi della vicenda su tablet e smartphone. Da un lato, Guido si sforza di riportare ordine, rimettere sui binari quella giornata assurda. Dall’altro, non riesce a liberarsi dal pensiero di Fabrizio, ricorda la loro passata amicizia – fallita – e l’influenza che poi Fabrizio ha casualmente avuto sul suo lavoro e sulla sua carriera. Intanto arrivano altre notizie: Fabrizio ha fatto fuoco di nuovo uccidendo un poliziotto. Guido mette una scusa con la segretaria, convoca tutti a una riunione nel pomeriggio e scappa dall’ufficio, si rifugia al circolo.


Il bar del club era in fondo alla hall. Vi si diresse, traversando l’ampia sala disseminata d’ottoni lucidi e foderata di soffice moquette. Ordinò un analcolico. Ruggero, il barista, un’istituzione là dentro, confidente dei soci più anziani, s’appoggiò al bancone con quel fare bonario che preludeva a qualche richiesta:

“Dottore, ma che è successo al dottor Cervi?” Mormorò. “Che cosa incredibile… Uno dei soci più stimati, un gentiluomo… E la povera signora Luciana… Ma com’è possibile… lei che lo conosce bene, perché l’ha fatto?”

Al club passava per grande amico di Fabrizio, visto ch’era stato lui a presentarlo. Lanciò di sfuggita un’occhiata a Ruggero: era chiaro che lo considerava in possesso d’informazioni privilegiate, che gli veniva richiesto di spartire con gli altri membri del club. Il suo primo impulso fu di voltargli le spalle e andarsene, ma al circolo non funzionava come in ufficio, l’armatura aziendale lì non serviva. Con quel tizio in rigatino e bottoni lucidi, fidato orecchio di soci di peso, non si può essere arroganti e sgarbati come con la propria segretaria.

“Terribile, terribile…” Bofonchiò, adeguandosi allo stesso tono mellifluo. “Uno crede di conoscere una persona e poi scopre… Non so, davvero non me lo spiego.” Pausa. Poi, siccome, appartenendo a un ambiente, se non s’intende soddisfare una curiosità, quanto meno occorre condividerla, aggiunse a voce più bassa: “Ma che succede, lì a piazza Sempione? Ci sono novità?”

“Niente,” rispose Ruggero deluso. “La tele dice ch’è sempre asserragliato. La polizia è schierata e il commissario ci sta parlando, cerca di convincerlo a rilasciare i bambini.”

Si cacciò in gola una manciata di noccioline e scolò l’analcolico. Scendendo le scale che portavano agli spogliatoi, incontrò Marisa, avvocato divorzista, bionda sui quaranta con cui occasionalmente giocava a tennis. Anzi, a volte avevano combinato un doppio misto, proprio con Fabrizio e signora. In genere l’abbinamento era: lui e Luciana contro Marisa e Fabrizio. Aveva appena fatto la sua ora di palestra e dopo la doccia veniva via per tornare a studio. S’avvicinò, anche lei con quell’aria di circostanza da lutto recente. O imminente.

“Dio, Guido… Che disgrazia! Una lite così banale, che a un tratto vira in tragedia…”

“Quale lite, scusa…”

“Ma sì, l’avrai certo saputo anche tu che Luciana stava per separarsi.” Gli lanciò un’occhiata e un mezzo sorriso; mai ricevuti tanti segnali di complicità da persone talmente diverse in così poco tempo. “Non eravate amici, con Fabrizio?”

Non avrebbe usato proprio la parola ‘amico’. Ma non era il caso di provare a spiegarlo a Marisa.

“Beh, Luciana la teneva un po’ sott’acqua,” proseguì lei. “Non ne parlava in giro, ma era ormai cosa fatta. L’ho assistita io nel preparare la causa… Ora ch’è morta, si può anche dire, non c’è più nulla da nascondere, segreti professionali da tenere…”

“Insomma, Fabrizio e Luciana… Divorzio?”

“Lei l’ha pescato con un’altra, molto più giovane. E l’ha incastrato… La solita vecchia storia. Del resto, erano anni che non funzionava. Ormai vivevano da separati in casa. Ma non ti diceva niente, Fabrizio?”

“Fabrizio non parla e io non chiedo,” rispose Guido. “Tra uomini spesso è così.” Specie se hanno alle spalle un’amicizia fallita, pensò tra sé. “Però avevo intuito che qualcosa non andava, questo sì.”

“Era un po’ che Luciana la preparava, lo teneva d’occhio. E una volta raccolte le prove, è passata all’attacco. Stava per sbatterlo fuori di casa.”

“E tu l’aiutavi…”.

“È il mio mestiere. Del resto, Fabrizio se l’è voluta, è stato davvero avventato. Nella situazione in cui s’è messo, lei gli portava via praticamente tutto: casa a Roma, al mare… Solo questione di cucire assieme gli ultimi dettagli. L’aveva capito, sai, d’essere fregato. E io credo… Il fratello, il prete, doveva esser lì per sostenerla, darle man forte nelle ultime discussioni. Avranno litigato… ma chi poteva immaginare che finisse così.”

Si scambiarono uno sguardo conclusivo.

“Ora scappo,” si congedò Marisa, lanciando un’occhiata all’orologio. “Ho un appuntamento a studio.” S’avviò di buon passo verso l’uscita.

Guido imboccò il corridoio degli spogliatoi. Aveva bisogno di muoversi un po’, stancarsi fisicamente per liberarsi di quella storia. Mentre apriva l’armadietto, tirava fuori scarpe, racchetta, eccetera, si guardò in giro, alla ricerca di un compagno… Ce n’erano un paio sotto la doccia, che avevano appena finito. Qualcuno si rivestiva, nessuno che si spogliasse allora. Mentre si diceva che avrebbe trovato un partner fuori, direttamente sui campi, entrò nello spogliatoio un tizio poco più anziano di lui, un certo Sante, internista in una nota clinica romana. A tennis, uno più o meno del suo livello, con cui aveva già giocato in passato.

“Ti va di fare due tiri?” Gli chiese Guido.

“Va bene. Ci giochiamo qualcosa, però. Se no non c’è gusto.”

Lo sapeva. Sante giocava sempre a soldi. E ci teneva, s’incarogniva per vincere, qualunque fosse la posta. Dieci euro o venti, cinquanta o cento, per lui era lo stesso. Piccole cifre che non significavano nulla. Una questione d’adrenalina. Gli dava l’illusione di un senso mettersi davanti un rischio e una preda.

“Cinquanta euro a set?” Propose Guido.

Uscirono. Si trovarono un campo libero, in fondo al vialetto a ridosso del fiume. Giocarono due set e Guido li perse entrambi. Ma impegnarsi nella partita servì a sgombrare la mente da Fabrizio, almeno per un po’. Finito il match, però, quand’erano sotto la doccia, Sante fece:

“Poveraccio, eh, Fabrizio…”

A Guido non pareva si potesse chiamarlo così. L’aveva fatta fuori lui, la moglie. Ma era chiaro che quella di Sante era una domanda, più che un’affermazione. Difatti pochi secondi dopo aggiunse:

“Ma che gli è preso, ne sai qualcosa? Qui sei tra quelli che lo conoscono meglio… In effetti da un po’ di tempo aveva l’aria di non star bene… Mi pareva nervoso, smagrito. Un colorito che non mi piaceva per niente…”

“Mah, non saprei… Non mi sono accorto di nulla.”

“Sai, a te posso dirlo, vista la situazione… E poi sei suo amico. Fabrizio è venuto in clinica, qualche giorno fa… Non l’ho visto io, non dovrei neanche parlarne, ma tra compagni di gioco… L’ha visitato un mio collega, oncologo. Aspetta il risutato di certi esami, però… Non so, non lo vedo bene…”

Che voleva, pure Sante? Passargli indiscretamente una notizia, o – più probabile – carpirne una a lui? “Non credo,” svicolò Guido. “A quanto ne so stava benissimo.”

Si rivestirono. Pagò i cento euro. Uscendo dagli spogliatoi, però, ebbe come un flash. Ricordò un fatto. Erano ragazzini, con Fabrizio e altri compagni facevano una specie di gioco della verità. Rispondere alla domanda: che faresti, se… Quella volta la domanda fu: che faresti, se sapessi che morirai domani? E la risposta di Fabrizio: io mi metterei in giro e andrei a dire alla gente quel che penso davvero, di loro e di tutto quanto; darei a tutti quel che si meritano.

Passando per la hall, mentre usciva, il barista lo chiamò.

“Dottore… L’hanno appena detto alla tivù, ha lasciato andare uno dei figli!”

Guido s’avvicinò.

“Come… uno solo?”

“Solo uno, il più piccolo. Pare che il ragazzino fosse in preda a una crisi, strillava, si dimenava… Non ce l’ha più fatta a tenerlo e l’ha messo fuori di casa, in giardino. Ha detto ai poliziotti di venirselo a prendere. Solo lui. I tre corpi in terra, quelli no, non glieli lascia toccare… Beh, il bambino l’hanno portato via, ora è con gli psicologi. Almeno uno. Lui è tornato dentro, si tiene l’altro… Mah, gli ha dato proprio di volta il cervello…”

“Faccia la cortesia, Ruggero, mi chiami un taxi.”

* * *

Arrivò a via del Pie’ di Marmo qualche minuto prima delle tre e andò direttamante in sala riunioni. I convocati erano già tutti lì, coi loro computer che proiettavano sullo schermo tabelle e grafici della trimestrale. Tenne una breve introduzione, poi diede la parola a Renato, controllo gestione, che illustrò i consuntivi economici. Seguì Alfredo, con la posizione finanziaria. Il vecchio fagotto stava facendo la sua esposizione, incerta e rozza come al solito, quando la porta della sala riunioni si spalancò e irruppe Pamela.

“L’ha lasciato andare!” Gridò. “Ha liberato anche l’altro bambino!”

Nel silenzio che seguì, galleggiò nell’aria il sollievo d’obbligo per la buona notizia. Sospeso, in qualche modo, e come offuscato da un velo d’incredulità: non era quello il finale giusto, non per la piega che la storia aveva preso. Lo sconcerto durò solo un attimo, poi quasi tutti trovarono il tono adeguato e dissero quel che andava detto: “Meno male, almeno i bambini…”. “Un barlume di pietà, finalmente”. “Speriamo che ora si consegni…” Ma quasi subito, alle spalle di Pamela, comparve sulla soglia Esther, della segreteria generale, a correggere quel finale sbagliato. Era rimasta nella sua stanza, davanti a un tablet. Aveva l’ultima:

“S’è sentito un colpo, da dentro. Uno solo. Dev’essersi sparato.”

Nuovo silenzio. Forse persino l’affiorare d’un’autentica tristezza, una compassione pressoché sincera. E nessuno sconcerto, stavolta: era la conclusione logica, quella che tutti in realtà aspettavano. Adesso sì ch’era finita davvero. Il nuovo stato d’animo che calò, per quanto più consono, non produsse commenti meno banali: “Non aveva altra scelta.” “No. Dopo quel che ha fatto, non poteva finirla diversamente.”

Eccetera. E non ci fu verso, dopo, di riprendere la riunione. Nemmeno Guido poté spingere il suo cinismo fino a quel punto. Il preview della trimestrale fu sospeso. Tornò alla sua stanza, si sedette alla scrivania. Quasi subito squillò il telefono. La segretaria del dottor Cesare. Lo voleva da lui, immediatamente, doveva scendere subito giù al primo piano.

* * *

Indossò la sua elegante giacca di sartoria. Conservava certi riguardi formali per i padroni (non si scende giù al primo piano in maniche di camicia) anche se, dopo la promozione a direttore, aveva acquisito il diritto di dare del tu al dottor Cesare e a tutti i membri della famiglia di seconda e terza generazione. Riservava ancora il ‘lei’ ai due più anziani, padre e zio di Cesare.

Trovò la porta della stanza aperta ed entrò direttamente, senza passare per la segreteria. Cominciò con lo scusarsi per il ritardo della trimestrale: “Cesare, abbi pazienza, con quel ch’è successo non so se saremo pronti domani…”

Ma il dottor Cesare non voleva parlare della trimestrale. L’aveva chiamato per altro. Per Fabrizio. Pure lui.

Mentre l’AD diceva quel che aveva da dire, Guido si guardò intorno. Fece finta d’ascoltare parola per parola, pur non avendone alcun bisogno: dopo le prime frasi, già sapeva il seguito. Lasciò vagare furtivamente lo sguardo attorno a sé, fingendosi tutt’orecchi.

Quella sala. Tutte le sale del primo piano: pavimentate in marmo, le pareti rivestite di stoffe antiche, le porte dipinte in verde veneziano con gli arabeschi d’oro, un mazzo di fiori sempre freschi sulla consolle d’ingresso… Mascherata dietro gli stucchi, i broccati, i lampadari di cristallo e i tappeti orientali, veleggiava una nave corsara. Ora la vedeva. La vedeva distintamente. Proprio ora che stava per scomparire.

Era in corso di costruzione, appena oltre il raccordo, la nuova sede della Ditta. Quel palazzetto antico ormai scoppiava d’impiegati, non bastava più a contenere le dimensioni multinazionali che l’azienda andava assumendo. Presto tutta la sezione operativa si sarebbe trasferita laggiù, sulla Flaminia. Il palazzetto sarebbe rimasto come sede di rappresentanza. Un museo, un luogo di memoria; in fondo anch’esso – come Ruggero – residuo di uno stato anteriore. E curiosamente, nel mutarsi in museo, rivelava la sua vera natura, quella che ora Guido vedeva con tanta chiarezza. La nave pirata, che traspariva dietro le volte affrescate. Il piccolo, glorioso vascello ch’era servito nell’aggressiva fase di accumulo. Una volta arrivati in cima alla piramide – alla propria piccola piramide predatoria, tra le tante che costellano il territorio – si cambia pelle, ci si dà una ripulita e s’entra nel salotto buono. Che è felice di spalancarti le porte. La moderna, ordinaria sede operativa sulla Flaminia sarebbe stata molto più funzionale al ruolo, adeguata a un’impresa attenta a raccogliere la fiducia di azionisti e mercati. Quella piccola nave corsara abbellita di marmi e stucchi entrava in bacino di carenaggio, sarebbe presto andata in disarmo.

Finì di ascoltare le istruzioni del dottor Cesare. Un uomo d’indubbio talento. Pragmatico, volitivo, capace e tenace; molto determinato e intelligente quanto basta – ma non troppo, all’intelligenza occorre un limite: saper cogliere i dubbi, ma poi arginarli, fermarsi in tempo, non inseguirli; per chi deve decidere più che capire, quel limite è vitale. Quindi un uomo limitato. Di un certo successo. È un fatto comune dovere ai propri limiti un certo successo. Pazientò fino all’ultima parola. Poi risalì al secondo piano a metterle in atto.

* * *

Entrò nel suo ufficio dalla porta che dava direttamente sul corridoio, senza passare per la stanza della segretaria. Stava per avvicinarsi all’armadio blindato, quando entrò Alfredo. Senza bussare, come suo solito. Aveva dipinta in faccia quell’espressione maligna e pettegola che Guido detestava.

“Una tivù locale ha fornito i dettagli… Sai in che modo?” Alfredo calibrò una pausa. “Non è mica facile, con una doppietta. A canna lunga. Ha ruotato la poltrona verso l’angolo. S’è tolto scarpe e calze. S’è seduto. Ha puntato il calcio contro il muro. S’è infilato la canna in bocca e con l’alluce ha premuto il grilletto.”

Ebbe l’impulso di prenderlo per il bavero e sbatterlo fuori. Ma era educato all’ipocrisia: s’alzò con calma, gli andò incontro e disse, spingendolo delicatamente verso la porta:

“Ti dispiace, vecchio mio? Preferirei star solo… Grazie.”

Diede due giri di chiave e s’affacciò alla stanza accanto. Pamela era seduta al suo posto.

“Non ci sono per nessuno,” le disse. “Non mi passi telefonate. Ho da sbrigare un lavoro urgente. Se non sono uscito per le diciotto, può andare. Ci vediamo domani.”

Chiuse la porta. Diede due mandate anche a quella. Poi andò all’armadio blindato e lo aprì, con le chiavi di cui solo nella cassaforte al primo piano c’era un doppione. Ne estrasse un faldone, lo depose sulla scrivania, lo aprì ed esaminò uno alla volta i documenti che conteneva: lettere, accordi riservati, memorandum d’intesa, addendum collaterali che integravano contratti in essere con clausole confidenziali. Di quando in quando estraeva uno di quei documenti e lo metteva in una cartella. Completò l’esame di quel faldone, lo chiuse e lo rimise a posto. Ne prese un altro e fece lo stesso. Fece così per tutti i faldoni dell’armadio blindato. Ogni tanto, un documento veniva estratto e finiva nella cartella. Quand’ebbe riposto l’ultimo faldone, la cartella conteneva un certo numero di documenti. Non tanti, una cartella abbastanza esile. La mise nella borsa, richiuse l’armadio blindato, riaprì entrambe le porte del suo ufficio e uscì, passando davanti alla sedia vuota di Pamela. Arrivò a casa ch’era buio. Passò il resto della serata a bruciare quei documenti nel caminetto di casa.

* * *

Il funerale laico di Fabrizio Cervi, cui Guido partecipò – contravvenendo alle istruzioni del dottor Cesare – si svolse in via Tripoli. Un palazzo in cima alla collina, proprio sulla vetta. Lo studio di commercialisti aveva sede al primo piano.

Firmando il registro, all’ingresso, Guido buttò l’occhio lungo il corridoio, dove a destra s’aprivano le stanze direzionali, una per ciascuno dei quattro soci; a sinistra, verso l’interno dello stabile, c’era un open space per gli impiegati; di fronte, il banco d’accueil con la segreteria. E a seguire la gran sala riunioni, dov’era stata allestita la camera ardente.

Il feretro era piazzato al centro. Su un lato, in prima fila, stavano in piedi i tre soci di Fabrizio, Guido li conosceva di vista. Accanto a loro, una bellissima giovane donna in lutto, sulla trentina. Pareva molto provata. Nel corso dell’orazione funebre, di quando in quando le sfuggiva un singhiozzo e s’appoggiava al braccio di uno dei tre, che la sorreggeva e le sussurrava parole di conforto. Dietro di loro, un piccolo gruppo di colleghi e personale dell’ufficio. Sul lato opposto, gente che Guido non aveva mai visto, verosimilmente parenti. A parte i genitori, che Fabrizio aveva perso tanto tempo prima, non conosceva nessun altro membro della famiglia. Si tenne nelle retrovie, vicino alla porta, pronto a squagliarsela. Quando l’oratore tacque, quattro addetti alle pompe funebri salirono a prelevare la salma per condurla alla cremazione. Fine del commiato. Fece per andarsene, ma due soci di Fabrizio lo fermarono sulla soglia.

“Dottore, permette una parola?” Bisbigliò il più vicino. “Mi rendo conto che non è il momento, ma sarò breve. Vado dritto al punto: io e i mei colleghi ci terremmo molto che il nostro studio potesse continuare a lavorare per la Ditta.”

“Beh, non so… è presto per dirlo,” borbottò Guido, colto di sorpresa. “Il dottor Cesare aveva un rapporto molto personale con Fabrizio.”

“Proprio per questo le chiedo d’intervenire col dottore. Possiamo continuare a fare per la Ditta quel che facevamo prima. Anche senza Fabrizio.”

“Mah, penso sia prematuro… La famiglia era piuttosto inquieta riguardo all’ispezione della Finanza che avete avuto di recente e al polverone che la vicenda di Fabrizio ha sollevato. Abbiamo dovuto prendere delle precauzioni. Ci saranno certo degli sviluppi, aspettiamo che si concludano.”

“Più che giusto, più che giusto. Una pausa ci vuole. Ma le assicuro che non c’è nulla di cui preoccuparsi. È una storia finita, senza seguito. A tempo debito, vorrei avere la possibilità di provarglielo, perché lei possa parlarne a ragion veduta col dottor Cesare.”

“Vedremo, non lo escludo…”

“Gliene saremmo molto grati. Ci apra quella porta, Guido. Non se ne pentirà.”

“Ci penserò. Però mi dica: ho saputo che eravate in rotta, con Fabrizio, per quella faccenda. Addirittura che si parlasse di una sua uscita dallo studio…?”

“Non so chi gliel’ha detto. Gira tanta gente maligna che parla a vanvera. Fabrizio era una colonna dello studio. Non l’avremmo mai danneggiato. Tutto quel che vogliamo è continuare il suo lavoro.”

“Beh, vedrò cosa posso fare…” Lo sguardo di Guido inavvertitamente si soffermò sulla bellissima donna in lutto che gli passava accanto, sorretta dal terzo socio di Fabrizio. Alta, lunghi capelli biondi, magnifica nel suo tailleur nero con veletta.

“Notevole, no? Si chiama Irina. Era l’amica di Fabrizio. Come vede, è sconsolata.”

“È lei la causa del… Sì, insomma, so che la moglie di Fabrizio, Luciana, aveva chiesto il divorzio. A dirla tutta, pare che stesse per metterlo fuori di casa.”

“Fuori di casa? Ma Fabrizio viveva già fuori… A casa ci passava ogni tanto pro forma; e Luciana era al corrente. Avevano messo da tempo le carte in tavola.”

“Mi risulta, però, che lei stesse intentando una causa, gli avrebbe portato via tutto…”

“Guardi, non so quali voci ha sentito. Stavano regolarizzando la situazione, questo sì. Fabrizio voleva liberarsene e sarebbe stato molto generoso con lei. Le avrebbe certo lasciato la casa che occupa e ogni altra proprietà comune. Non ne aveva bisogno. Con tutti i soldi che ha altrove… Avrebbe potuto goderseli, lasciando alla moglie i beni al sole in Italia.”

“Ma allora…?”

“Mah…”

Una pausa di silenzio. Poi fu ancora Guido a parlare:

“Un’ultima cosa: questo funerale. Qui e in questo modo…”

I soci di Fabrizio si scambiarono uno sguardo. Poi uno dei due rispose, con un po’ d’imbarazzo: “Sono le sue istruzioni… Sì, Fabrizio ha lasciato un biglietto. L’abbiamo trovato sulla scrivania. Parlava solo della cerimonia funebre, nient’altro, nessuna spiegazione. L’ha voluta così: qui e in forma laica, con cremazione. E… beh, le ceneri. C’è un’istruzione precisa a questo riguardo: dobbiamo custodirle nel suo ufficio per qualche tempo, non dice quanto. Poi siamo liberi di farne quel che ci pare, dice proprio così. Purché non finiscano in un cimitero. Né laico né religioso. In nessun cimitero al mondo.”

“E che ne farete?”

“Credo… beh, credo che le terremo qui. Quando saranno grandi, le daremo ai figli, assieme al biglietto. Decideranno loro.”

Non avendo altre domande, Guido se ne andò.

Per strada, camminando, meditò sui fatti. Gli parve confusamente d’intuire cos’era accaduto. Perché mai uno come Fabrizio – uno che viveva esattamente nello stesso mondo in cui viveva lui e sembrava persino starci più a suo agio – perché mai avesse all’improvviso scelto di dare la parola alla doppietta. Forse c’entrava l’ispezione della Finanza, come pensava Alfredo; o il divorzio in corso, come sosteneva Marisa; o un problema di salute, come credeva Sante; o forse tutt’e tre questi fatti e nessuno. Davanti a ciò che non capisce, uno cerca rifugio in quel poco che sa: un medico prova a leggervi una malattia, un avvocato una causa, un finanziario i bilanci. Quanto a lui, non ne comprendeva i dettagli, non sarebbe neanche stato in grado di spiegarne i meccanismi sommari. Però sentiva di avere qualcosa in comune, con Fabrizio. Un’oscura sostanza comune.

Tornò a casa a piedi. Una lunga camminata. E niente ufficio, nel pomeriggio. I bilanci aziendali potevano aspettare. L’indomani, poi, sarebbe andato in via del Pie’ di Marmo, avrebbe concluso la riunione interrotta e avrebbe avvisato Cesare ch’era pronto a incontrarlo per illustrargli i risultati della trimestrale.

Fine.


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso

 

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