Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

La guerra di Amelio

Gianni Amelio, con "Campo di battaglia" sul Primo Conflitto Mondiale, offre un nuovo punto di vista sull'assurdità della guerra. Grande prova d'attore per Alessandro Borghi

Un altro film sulla Prima Guerra Mondiale alla Mostra di Venezia. Oddio, cosa potrà mai aggiungere alle decine di pellicole che l’hanno già raccontata scrivendo la storia del cinema, da La grande illusione di Jean Renoir del 1937 fino a 1917 di Sam Mendes del 2019? E poi a Venezia l’argomento è fin troppo di casa, basta pensare al Leone d’oro al capolavoro di Mario Monicelli La grande guerra. Insomma, come minimo è un déjà vu. Così guardando senza aspettative il nuovo film di Gianni Amelio, Campo di battaglia, ho scoperto fin dalla prima scena – un soldato che fruga tra i cadaveri ammucchiati nella luce plumbea della trincea e all’improvviso una mano sbuca tra i morti e si aggrappa alla vita – che già visto non è.

O, meglio, il messaggio che contiene è certamente già visto, è la denuncia della follia di ogni guerra contenuta nei capolavori del cinema mondiale, da Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick a Per il re e per la patria di Joseph Losey e tra gli italiani, oltre a La grande guerra, Uomini contro di Francesco Rosi del 1970, allora censurato per vilipendio all’esercito e sospetto che oggi succederebbe di nuovo con l’aria che tira.

Ma Amelio trova un modo tutto suo per ricordarci l’insensatezza della guerra, uno sguardo originale che non ha bisogno di effetti speciali, che non concede nulla al melodramma, che non alza i toni del commento musicale. Il risultato è una pellicola intima, densa ed essenziale, illuminata dal livido grigioverde delle notti in trincea. In mezzo all’orrore della morte e dei lamenti, c’è lo sguardo compassionevole di un tenente medico che percorre le corsie di un ospedale, nelle retrovie friulane dopo la disfatta di Caporetto, e ogni tanto gli scappa un sorriso in mezzo a quella disperazione e ogni tanto ripete, a se stesso e agli agonizzanti: “qui non muore nessuno”.

Giulio Farrasi, interpretato da Alessandro Borghi, prende servizio nell’ospedale militare diretto dal capitano Stefano Zorzi (Gabriel Montesi), sono amici dai tempi dell’università, li lega anche l’amore per una compagna di corso, Anna (Federica Rosellini), che non si è laureata perché per una donna era tutto troppo complicato e che li raggiungerà indossando il velo e l’abito bianco dell’infermiera.

È tra i letti dei feriti arrivati dal fronte che succede tutto, ciò che si può dire e ciò che si deve tacere. Perché il confronto tra la retorica bellicistica e lo scetticismo di chi guarda in faccia la realtà avviene non sul terreno dello scontro dialettico, ma letteralmente sulla pelle dei soldati, distinguendo tra “eroi” e “disertori”, tra chi è stato ferito in battaglia e sul campo di battaglia vuole tornare e chi dalla guerra vuole invece fuggire ed è disposto per questo a tutto, anche all’autolesionismo.

Il capitano Zorzi giudica e separa le due categorie con inflessibile durezza in nome della patria e delle giovani vite che reclama. Il tenente Farrasi condivide invece il dolore dei ragazzi mandati a morire da tutta Italia, che parlano dialetti incomprensibili e sognano di tornare a casa. Li aiuterà a realizzare questo sogno fino alle estreme conseguenze – nella scena della fucilazione del disertore che disertore non è ho visto la citazione di Per il re e per la patria di Losey – e a quel punto capirà che niente può fare per impedire il massacro.

Invece qualcosa farà, lui che è anche biologo e ha studiato i bacilli, per affrontare uno degli effetti più devastanti della guerra: l’epidemia di febbre spagnola. Le scene dei cadaveri dei soldati chiusi nelle coperte, ammucchiati nei camion e bruciati nella fossa comune, evocano immediatamente le immagini della pandemia che abbiamo tutti ancora nella mente. E confermano che il film di Amelio ambientato nell’Italia del 1918 in realtà ci racconta il nostro buio presente, tra echi di guerre sempre più vicine e paure che non abbiamo il coraggio di confessare.

Se lo scontro tra i due ufficiali medici è la struttura portante del film – e il regista è bravo a non cedere alla semplificazione del buono contro il cattivo – la presenza di Alessandro Borghi è un indiscutibile valore aggiunto. Sul suo viso c’è la cicatrice di un labbro leporino: credo sottolinei la sua fragilità, pronta ad accogliere con un sorriso timido tutte le umane fragilità che incontra.

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