Alberto Sagna
Un racconto di vita e altre sfide

Il pugile

«Lui uscì dal ring, scivolando dal quadrato. Vide il pugile turco vicino a una colonna. Erano soli. E quando l’atleta iniziò ad avvicinarsi, accelerò il passo. Non parlavano la stessa lingua, non si erano mai parlati»...

L’odore acre della pomata emostatica si infilò nelle narici e arrivò dritto ai polmoni. Fabio Fornari sentì improvvisamente un forte urto sulla cassa toracica e poi sullo zigomo, ma non vacillò, c’era abituato, se l’aspettava, non temeva quel pugno mancino, lo aveva visto tante volte sullo schermo della televisione, e ora c’era lui, dopo due anni e settantatré giorni di allenamento, pollici rotti, cerotti sulla guancia, tagli orizzontali sotto l’occhio. E gocce di sangue sulla maglietta, sulle scarpe, sul bordo dei calzini.

Si era rotto il naso a sedici anni, la prima rissa fuori dal bar dei suoi genitori a piazza Esquilino, dopo che due ragazzi più grandi di lui erano entrati velocemente e poi usciti con l’intero incasso della giornata, devastando tutto, prendendo a calci la porta d’ingresso, e sparando al bancone. Cinque colpi di pistola, cinque buchi profondi nel legno. Il bandito più piccolo era anche basso, con la faccia cupa, gli occhi guizzanti, e aveva solo un coltellino nella mano sinistra. E lui era uscito di corsa dal bagno, per le urla di sua madre, l’urto di uno schiaffo sul volto di lei. Poi, a un certo punto non aveva sentito più niente. Il disco si era rotto, solo un sibilo.

Forse lo sparo l’aveva reso sordo, forse non voleva sentire più niente, nessun oggetto che cadeva in frantumi, il rumore metallico della cassa divelta con i tasti scoperchiati e sparsi sul tavolino. Ma neppure era in grado di vedere, gli occhi si erano annebbiati per un istante. Si sentiva cieco e sordo, e le mani avevano iniziato a bruciare.

Poi era corso al centro del negozio, evitando di guardare tutti, con le gambe che andavano da sole a una velocità che neppure conosceva, ma i suoi occhi avevano comunque registrato qualcosa. Occhi fissi e vitrei. Eppure, con leggero ritardo avevano inviato al cervello alcune immagini che apparivano e poi sparivano, la mano di sua madre sulla guancia arrossata, il padre accasciato sullo sgabello con la testa insanguinata, schegge di legno del bancone sparse per terra. E il ragazzo con il coltello che stava salendo sulla sella di uno scooter bianco, dietro a quello più grosso che indossava un cappello di lana marrone. E poi vide quest’ultimo che, prima di partire, aveva estratto con velocità la pistola dai pantaloni, puntandola contro un passante che in quel momento si trovava lì, a pochi metri, con un giornale sottobraccio. Non sentì l’urlo di quell’uomo, vide solo le mani sulla faccia, come a coprirsi la bocca, il volto, le labbra, gli occhi con le pupille dilatate, per pregare, o recitare il rosario della morte, che avvenne in pochi istanti. Con le gambe che diventarono flosce, le dita insanguinate e anche la faccia che si era spostata all’indietro per il contraccolpo, e lui una cosa così non l’aveva mai vista. Ma due secondi dopo era già addosso al piccolo ladro, lo aveva afferrato prima per i capelli e poi al collo, graffiandolo con tutte le unghie, i polpastrelli. Avrebbe voluto prendergli a morsi il cranio, strappargli il lobo dell’orecchio. E, mentre l’altro si divincolava, lui aveva cominciato a tenerlo stretto con il gomito avvinghiato al collo, sempre di più, fino a farlo cascare indietro mentre lo scooter partiva a tutto gas, sgommando per un peso di meno, un ladro di meno sulla lunga sella.

Sentì anche lui il contraccolpo dello scooter mentre partiva in velocità, cadde il piccolo ladro, cadde lui, e si ritrovò con la nuca sul selciato e le braccia che serravano sempre più forte il collo del ragazzo, che iniziò a dimenarsi, a scalciare.

Per un istante si vergognò di quello che stava facendo. Come per le parole di rimprovero che gli aveva rivolto la sua maestra quando con una penna aveva ferito alla mano il compagno di banco. Una biro rossa usata come punteruolo per fermarlo mentre alzava la gonna di una compagna. E lui aveva accettato il rimprovero e lo avrebbe accettato anche adesso, anche se fosse stato di suo padre, come quella volta che, infatti, tornò a casa e venne messo in punizione dentro la stanza. Per una settimana. Senza che suo padre gli rivolgesse la parola. Confinato in un rettangolo, lui, il libro di algebra, e qualche piatto di cibo.

E in quel momento aprì gli occhi, e mollò di un centimetro la presa sul collo di quel ragazzo che era lì steso a terra ma sopra di lui, con un peso senz’altro più grande, e incominciò a sentire quei gomiti spigolosi che picchiavano sui fianchi e poi sull’addome. All’improvviso arrivò il crack sul naso.

Quel maledetto ragazzino ladro aveva una frezza bianca sui capelli, ma non era vernice, sembrava naturale, il segno che era già uomo a quell’età, un vecchio bambino con tanti peli sul petto. E gli vide i denti, erano tutti gialli e pensò che al posto della saliva avesse una colla corrosiva, e a breve tutta quella colla sarebbe salita su di lui, fermandolo, bloccandogli le braccia e poi il respiro in gola, fino a salire agli occhi che si sarebbero chiusi, perché quel brodo di colla appiccicoso sarebbe arrivato ovunque. Tutto questo mentre sentiva il suo naso gonfiarsi, e iniziava a perdere fiato. Le dita delle mani erano diventate dure, pesanti. Annaspavano nell’aria.

“Ora ti spacco le ossa”, furono le prime parole che sentì non appena quel ragazzo riuscì a divincolarsi e cominciò a prenderlo a calci, prima sulle gambe, poi sulla faccia.

Fabio sentì l’urto più del dolore. E tentò di alzarsi in piedi, ma un calcio gli spazzò via le gambe. In quel momento vide il padre, che avanzava e parlava, forse ancora una volta lo rimproverava. Non avrebbe dovuto cacciarsi nei guai, doveva rimanere in bagno, chiudersi e poi aspettare, questo lo sapeva, l’aveva sempre saputo. Fu un’immagine distorta, solo il suo viso, severo e irreprensibile. Severo e sempre giusto. Severo e punitivo. Si ricordò solo allora di avere un cacciavite in tasca, ma rimase in silenzio, non rispose al padre, non aprì la bocca.

La malcuranza, così il padre chiamava ogni suo capriccio. La legge della malcuranza imponeva di rimanere in silenzio di fronte a un adulto che parlava, perché lui era bambino, doveva sempre imparare e un giorno avrebbe fatto le stesse cose per suo figlio, perché le malcuranze si combattono da piccoli, sono cose da dottori, si curano con i farmaci, e forse c’era anche uno sciroppo per questo malanno, lo stesso che gli davano ogni volta che lui iniziava a tossire per le grida troppo forti. Gridava fino a sgolarsi perché le tempie gli andavano a fuoco quando non capiva qualcosa, perché capire era il senso più difficile della sua giornata. Capire ed essere capito, ma vedeva sempre un muro davanti a sé, senza via d’uscita, i suoi genitori erano quel muro, l’insegnante era quel muro. Erano tutti davanti al muro, in piedi. E non si spostavano. Nessuno l’ascoltava, il padre lo evitava, e dal giorno della rissa aveva evitato anche il suo sguardo. Lui era diventato il colpevole.

E nel momento in cui ricevette un gancio sinistro sullo zigomo riuscì ad assorbire l’impatto. Aveva ammorbidito il corpo come se stesse sulle corde, roteando il busto in direzione della forza motrice. Il turco aveva fatto più incontri di lui, era più grande di due anni, la pelle sembrava abbrustolita al sole, e il sale ce l’aveva sulle nocche che si sentivano nonostante i guantoni.

Fabio Fornari era stato chiamato dal C.t. della nazionale olimpica per allenarsi con loro. Non avrebbe combattuto ufficialmente, ma era qualcosa di impossibile da rifiutare. Se avesse superato questo incontro da sparring partner, sarebbe partito per le Olimpiadi di Parigi. Aereo pagato, ma non alloggio e vitto. Non avrebbe dovuto parlarne con nessuno. Ma questo non era un problema, di solito si faceva i fatti suoi, nessuno sapeva che era stato mandato in riformatorio dopo aver ucciso un piccolo ladro in pieno giorno, conficcandogli la punta di un cacciavite nell’occhio sinistro. Al processo aveva tentato di dire che si era difeso, ma era stato condannato da un’inflessibile giudice donna dai capelli corti e grigi, madre di tre bimbi perfetti, che di lì a poco venne trasferita al settore civile a occuparsi di testamenti.

Per questo incontro si era alzato alle quattro e trenta di ogni mattina negli ultimi sessantatré giorni, stirando subito i muscoli delle gambe e poi quelli delle braccia, con movimenti precisi. Aveva disegnato questi esercizi con una matita, facendo prima degli schizzi e poi delle frecce, per indicare la direzione corretta, mentre dalle cuffiette sentiva la musica dei Sex Pistols. Non era un incontro ufficiale, non lo poteva dire a nessuno, in fondo si sentiva un signor nessuno, era un ectoplasma che veniva evitato di giorno, e lui non avrebbe mai detto che si svegliava presto pensando all’avversario che stava dormendo. Voleva essere più forte, arrotondare i muscoli, stare un passo avanti, mai indietro, controllare i battiti cardiaci, il respiro, e il flusso sanguigno che scorreva all’impazzata sulle vene dell’avambraccio. Il sangue era ancora più veloce degli occhi, pensava.

Senza ancora aver fatto colazione, si piegava sulle braccia e faceva cento flessioni, anche tenendo i pugni chiusi. Poi andava in cucina e beveva due bicchieri di latte d’avena. Mangiava sempre tre banane, per lo più acerbe. Dopo dieci minuti scendeva dalle scale di casa, iniziava a correre nel freddo delle strade a senso unico, mai in quelle a due corsie, perché pensava che la mattina le macchine sarebbero passate nelle vie più larghe, per zigzagare dopo le ubriacature di notte. E anche lui voleva essere ubriaco, ma non voleva deludere ancora una volta. Indossava una felpa con il cappuccio sulla testa che copriva parte dei capelli. Nessuno doveva riconoscerlo. Ma era sempre la stessa felpa, quella senza scritte, con lo stesso sudore, un blu scolorito sul lato sinistro vicino alla spalla sinistra, il residuo di una macchia che non era andata via con la lavatrice. Quarantacinque minuti in velocità, i piedi come ali, ondeggiava il busto, teneva la schiena arcuata in avanti e i pugni tesi vicino al torace. E dopo questi quarantacinque minuti spariva come d’incanto l’immagine solitaria del mattino, quella con gli occhi vuoti e sospesi che scorgeva nello specchio del bagno. Due puntini marroni, inutili, che faceva fatica a guardare.

Jab, rotazione del corpo. La pressione della forza sul tallone, la dinamica impressa alla spalla, il colpo arrivò a segno. Il turco tentò di allontanarsi, lui lo raggiunse con un montante allo stomaco, e poi lo spinse alle corde, tenendo sempre la guardia alta, i guantoni vicino al mento, usò gli avambracci come leva sul tronco dell’avversario. E poi sferrò un gancio sinistro al volto, flettendo il corpo per schivare un possibile diretto sinistro dell’avversario, che non arrivò. Vide tremare il caschetto rosso per la forza impressa. Non mollò di un centimetro la presa, le gambe salde e ben distanziate. Con entrambe le braccia lo ributtò sulle corde non appena il turco cercò di assestargli un diretto destro e allontanarsi. Tirò tre jab perfetti e poi un diretto destro, voleva aprirgli una ferita, era il giorno che voleva vedere sangue sul volto dell’altro. Un fiotto di sangue, non solo una goccia. Sentì l’urto della mano, il guantone che scivolava sullo zigomo, e affondò un gancio sinistro. Il turco barcollò, solo leggermente. Eppure doveva cadere. Cedere. E arrendersi. Altrimenti lo avrebbe colpito ai fianchi, gli avrebbe smorzato il fiato, levato l’equilibro e poi fatto saltare il paradenti. Non lo mollava mai con lo sguardo, un po’ come il suo allenatore nella palestra di Tor Marancia, il giorno in cui gli aveva fatto capire che lui non sembrava un pugile. Era solo un tipo veloce, con una buona tecnica, anche se non somigliava all’ideale del boxeur, perché aveva il polso con le ossa piccole e avrebbe avuto difficoltà a farsi riconoscere, e forse a riconoscersi. Ma lui sapeva già che quel “sembrare” era più importante di ogni cosa, sembrare figlio, sembrare un amante a letto, sembrare un pugile. E che le categorie estetiche erano frutto di un’immagine appiccicata addosso dagli altri, e ogni immagine che fino ad allora aveva dato di sé era inesatta. E lui era una vita che lottava contro queste inesattezze.

All’improvviso suonò la campanella del terzo round e tornò all’angolo.

Solo in quell’istante vide suo padre. Non era mai venuto ad un incontro, non l’aveva mai incoraggiato, non era mai stato contento di lui, si sentiva un figlio spurio, o reietto, e non si parlavano da sei anni. Capì che era stata sua madre ad avvertirlo, dopo che si erano incontrati al supermercato, due parole di troppo come facile esca.

Il padre pesava circa novanta chili ed era alto un metro e ottantotto, lui solo sessantasei chili per un metro e settantacinque d’altezza. Ma da piccolo non aveva mai ricevuto uno schiaffo a mano aperta, o un pugno. Eppure, quando incrociò il suo sguardo le gambe iniziarono a tremare e sentì improvvisamente freddo, prima alle mani e poi alla testa. Rimase seduto sullo sgabello, non si alzò per il quarto round. Voleva capire, voleva sapere, si mise a parlare da solo, non sentì le parole del suo allenatore, non vide lo straccio bianco che volò per terra due minuti dopo. Era come se fossero loro due da soli dentro una strada buia, inghiottiti in un vortice, si fissavano e non smettevano di fissarsi, nessuno dei due parlava ma questo non era importante. Si stavano capendo lo stesso.

Era in corso una lotta.

A ogni minimo movimento corrispondevano cento parole, silenziose, inespresse, dell’uno e poi dell’altro, recriminazioni, grida sedate, rimproveri. E quando l’atleta turco si avvicinò al centro del ring, rimase fermo. Lo guardò per farsi guardare, ma Fabio era diventato cieco. Ancora una volta, come quella volta a Piazza Esquilino. Cieco e muto. Con lo sguardo spento. In direzione di qualcosa, ma non del ring.

Capì che rompere le mascelle e poi tornare a casa da solo era solo parte di un film, uno di quelli girato dagli altri, e gli spettatori erano bestie feroci, peggio di lui. Volevano i lividi, volevano sentire i colpi che falciavano l’aria, vedere umiliati i corpi mentre cercavano di schivare un pugno mortale, e si affannavano a leggere la ferocia del pugile da un gancio partito all’improvviso, o da un labbro gonfio di sangue. E per quella dannata ostinazione che spiccava dagli occhi dentro un piccolo quadrato di corde, urlavano, inveivano, o si avvicinavano a bordo ring quasi a offrire il loro corpo, il corpo di un altro incontro che era solo nella loro testa. E poi c’erano gli scommettitori, quelli che per una manciata di euro lo avrebbero voluto vedere al tappeto nel primo round, tanto loro non avevano mai sbattuto la faccia sul pavimento duro, non erano mai stati ricoverati in ospedale, costretti a bere e mangiare da una cannuccia rosa. Per una mandibola fratturata. Eppure, li vedevi aggirarsi come cimici ai bordi del quadrato. Appena li incontravi tutti sorridevano, tutti si arrabbiavano, tutti erano nervosi, perché erano quelli dalle mani svelte a contare i soldi.

Capì anche che un solo gesto aveva cambiato la sua vita a sedici anni, e la sua nascita era stata un incidente, qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere in un percorso lineare, dove due persone si amavano davvero, e un terzo ingombro era stato capace di distruggere ogni cosa, e forse tutti i fili creati dalla natura si erano spezzati. Guardò suo padre dai piedi alla testa, il colore olivastro della pelle non era più lo stesso, i capelli erano quasi tutti bianchi, aveva due solchi scuri sotto gli occhi, il corpo con le spalle ricurve che lo facevano sembrare molto più piccolo. Anche il viso era diverso, solcato da tre rughe sulla fronte grosse come serpenti d’acqua dolce, gli zigomi allargati, gli occhi neppure erano più gli stessi, sembravano più piccoli. Era stato un altro uomo, sovrastante e silenzioso, duro e ingombrante. L’orologio del tempo aveva camminato troppo in fretta. Erano due individui non allineati, disomogenei, lo erano sempre stati, tutto era avvenuto per un caso, la nascita, la vita sempre più stretta. E ora il caso non avrebbe risolto i lori problemi. Vedeva un uomo ma non vedeva un padre.

Rimase con le gambe incollate al pavimento, il caschetto azzurro ancora indosso, le mani ricoperte dai guantoni. Non riuscì a muovere un dito.

L’uomo anziano che era venuto per lui se ne andò, fu uno degli ultimi.

Lui uscì dal ring, scivolando dal quadrato. Vide il pugile turco vicino a una colonna. Erano soli. E quando l’atleta iniziò ad avvicinarsi, accelerò il passo. Non parlavano la stessa lingua, non si erano mai parlati. E ora non avrebbe saputo parlare. Era alto e più secco di lui, e i muscoli dell’avambraccio sembravano lucidati con la cera d’api. Scorse sul viso del turco un accumulo di sangue e liquidi, ma non sembrava stanco per le botte prese. E anzi, con occhi socchiusi esaminava il suo torace, guardava le costole.

Aveva voglia di fare male.

E lui sentì una scossa nella corteccia celebrale, un piccolo dolore che squarciò il buio dove era sprofondato. Si spostò di lato per arrivare alla porta, e il turco rimase sempre fermo. Fissava le mani. E, allora, anche lui si fermò. E cominciò a riavvolgere lentamente le bende sui pugni, stringendole forte ai polsi. Di nuovo la bestia nera aveva invaso i suoi polmoni, scendendo tra le braccia.

Si guardò la mano sinistra, un dito era diventato più grande, l’osso sembrava il doppio, con una tumefazione di colore nero, come l’inchiostro, o per la peste che l’assaliva di continuo ogni volta che le cose stavano andando per il verso sbagliato, il verso di sempre. Si toccò l’indice e sentì dolore, ma volle stenderlo, e poi serrò il palmo della mano.

Tornarono sul ring.

Questa volta senza caschetto.

Senza arbitri.

Voleva spezzarsi le mani o spezzarle per sempre.

Sapeva fare solo questo.

La pelle delle nocche si era consumata per spaccare i muri. E un giorno sarebbe tornato a casa per chiedere scusa al padre, di quella lunga notte in cui aveva frugato tra i cassetti della scrivania come un ossesso, con occhi rapaci e pieni di vendetta, o di rancore, e poi era uscito di soppiatto dalla stanza con una mazzetta di banconote da cinquanta euro tra le mani.

La stessa notte in cui si era allontanato velocemente dall’abitazione senza farvi più ritorno, e dentro l’ascensore si era coperto il capo con il cappuccio della felpa blu. Per non sentire, non essere visto, e vedere sempre meno. Ma dentro quel cappuccio era come se ci fossero stati mille spilli acuminati.

Con nuove lacerazioni.

Arrivato nel cortile aveva iniziato a correre con gli occhi orlati dal freddo, recitando a voce bassa liberaci dal male.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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