Roberto Cavallini
Al Museo di Roma in Trastevere

Tempo di Dark

In mostra a Roma gli scatti in bianco e nero di Dino Ignani, testimonianza della cultura Dark underground degli Anni Ottanta. Tra poesia, rock e rivolta sociale

È stato un evento, nel vero senso della parola, un afflusso debordante di pubblico all’inaugurazione della mostra di Dino Ignani 80s Dark Rome, al Museo di Roma in Trastevere, il 10 settembre 2024, la mostra rimarrà visitabile fino al 10 novembre 2024.

Oltre alla presentazione di una mostra di fotografie, quello che è avvenuto il giorno dell’inaugurazione ha trasformato l’esposizione iconografica in un evento sul potere evocativo della fotografia stessa, su come questa abbia stimolato la nostalgia di chi visse quegli anni, che poi erano quelli della propria gioventù, la curiosità di coloro che quegli anni li sfiorarono a malapena, perché giovanissimi, ma che comunque al Uonna Club ci sono stati anche loro (sic!), la necessità di rivedersi, di riconoscersi, di parlarsi, di riabbracciarsi per tutti quei sessantenni (poco più o poco meno, forse un po’ di più) che per prima cosa si sono fatti ritrarre in gruppo col cellulare o si sono scattati un selfie davanti ai loro ritratti d’epoca, stampe vintage!

Le due gallerie del primo piano del museo erano straripanti di visitatori, stipati come fossero in un autobus nell’ora di punta, ma questi viaggiatori diretti verso un recente passato personale e collettivo (a quei tempi si diceva il personale è politico) erano tutti sorridenti, tutti loquaci, tutti baci e abbracci, malgrado fossero tutti madidi di sudore e a turno cercavano una via di scampo respiratorio nell’ombreggiato cortile dove si stava allestendo un DJ set per la serata, anch’esso evocativo degli anni ottanta.

Il nucleo centrale della mostra è costituito da una selezione di circa 200 dei circa 400 ritratti che Dino Ignani ha scattato, tra il 1982 ed il 1985, al mondo Dark che cominciava ad animare la scena giovanile italiana sull’onda di quanto avveniva in Inghilterra dove tale movimento si chiamava Gothic rock o Goth rock o semplicemente Goth.

In Italia fu appellato, senza mezzi termini, Dark, un movimento i cui tratti identificativi erano la malinconia, lo spleen, il nichilismo, il nero come colore dell’anima, neri i cappotti, neri i capelli con acconciature stravaganti proiettate verso il cielo (sicuramente carico di nubi), un modo per dire io esisto. Le tracce musicali di sottofondo erano quelle di Robert Smith, dei Cure e dei Siouxsie And The Banshees. C’è da sottolineare, a scanso di equivoci, che il movimento Dark non fu solo stravaganza estetica ma che proprio da quell’ambito aperto a tutte le possibili forme di auto-rappresentazione, mosse i primi passi quel movimento che oggi si definisce LGBTQ+. Non è un caso che siano presenti, tra i tanti anonimi i ritratti, quelli di Diamanda Galàs e di Porpora Marcasciano attivista, scrittrice, figura storica del movimento LGBTQ+, allora studentessa universitaria.

Accompagnano e si confrontano con la sezione Dark, i ritratti di scrittori e poeti che l’autore aveva cominciato a inseguire dal famoso festival di Casteporziano (1979), ed in mostra sono esposti quelli di Dario Bellezza, Patrizia Cavalli, Amelia Rosselli, Valentino Zeichen, che rappresentavano una realtà altra distante dal mondo Dark. A latere troviamo anche altre immagini degli anni ’80 di Ignani, riconducibili ad uno sguardo su una Roma notturna e periferica, visioni anche a colori sul paesaggio urbano contemporaneo.

Dino Ignani è nato nel 1950, fa parte di quella generazione che ha vissuto il ’68, il ’77 ha avuto contatti col movimento femminista e si è formato in una temperie politica distante da quella che è stata definita l’epoca del “riflusso” della quale il movimento Dark fu una delle espressioni. L’incontro tra il fotografo e i dark avvenne per caso e continuò per curiosità.

Ignani frequentava, nei primi Anni Ottanta, la vineria “Il Fidelio”, gestita da un tedesco appassionato di musica classica e di jazz e che con queste colonne sonore accompagnava e allietava i clienti nelle loro bevute. Destino volle che “Il Fidelio” fosse frequentato abitualmente anche dai Dark romani prima del loro prosieguo notturno nelle discoteche come il Black-out, il Piper, il Uonna club, L’Angelo azzurro etc., etc., perché occorre ricordare che la vineria chiudeva rigorosamente a mezzanotte e mezza.

Un po’ per la differenza di età, un po’ per l’abbigliamento, Ignani ci tiene a precisare che al tempo indossava giacche di Harris tweed, era proprio lui a sentirsi “un diverso” in quell’ambiente dove il nero era dominante, ma riuscì lo stesso ad entrare in contatto con i suoi compagni di vineria e a seguirli nelle discoteche dove avrebbe allestito di volta in volta un piccolo set fotografico.

È notevole la differenza tra l’impostazione fotografica che si riscontra nei pochi ritratti degli scrittori in mostra e quella dei dark. Nei primi prevale la geometria, la giusta collocazione di pesi e contrappesi, una composizione armonica, si riesce a intuire il tempo dedicato allo studio e alla ricerca dell’immagine, ma soprattutto è evidente nelle espressioni e nelle posture l’intesa tra fotografo e fotografato, per tale ragione queste fotografie si potrebbero classificare come “interpretative”, mentre quelle dei Dark potrebbero essere collocate nell’ambito della “constatazione”.

Il tempo ed il luogo sono gli elementi che hanno determinato questa distanza linguistica, in un caso la disponibilità dei poeti e l’ambientazione nelle loro stesse abitazioni, nell’altro la velocità di turnazione tra un ritratto e l’altro col soggetto già pronto alla fuga verso la pista da ballo. Un ombrellino riflettente, una lampada da 100 watt, un treppiede, per fondale una parete di un piccolo spazio, velocità e serialità, questi erano gli strumenti dello scatta e fuggi, in discoteca.

Si è già sottolineata abbondantemente la presenza del nero nella moda dell’epoca e questo potrebbe far pensare che la scelta del bianco e nero delle fotografie in mostra derivi da necessità espressiva. Niente affatto, pur riflettendo sulla potenza espressiva del colore e citando, fra gli altri, Yves Klein e Mondrian, per attenerci solo all’arte contemporanea, Ignani ha spiegato che la scelta dell’uso delle pellicole in bianco e nero derivava dal fatto che “a quei tempi” i fotografi sviluppavano e stampavano le loro foto artigianalmente e autonomamente, spesso in camere oscure di fortuna, anche per mantenere un legame emotivo tra il ricordo del momento dello scatto e l’apparire dell’immagine in fase di sviluppo.

Questo legame emotivo tra presenza e ricordo, questo slittamento temporale tra occhio e cuore oggi non esiste più, perché l’immagine scattata compare sul display del device immediatamente.

Le implicazioni esistenziali, emotive e nei casi specifici professionali sono numerose e non è questa la sede per discuterne, ma come ha dichiarato Ignani riflettendo sul suo lavoro, “se negli anni ’80 ci fossero stati gli smartphone” (con tutta la loro rapidità e con tutta l’incoscienza di chi spesso li manovra fermandosi alla “constatazione”), “questa mostra non sarebbe mai esistita, perché i giovani di allora si sarebbero fotografati tra loro“.

E tutta la massa vociante e allegra, che è confluita all’inaugurazione della mostra per ritrovarsi, riconoscersi ed abbracciarsi avrebbe consumato un’altra giornata di caldo estenuante di un clima malato, in solitudine.

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