Danilo Maestosi
A Palazzo Merulana di Roma

Un secolo di colori

Una grande mostra festeggia i cent'anni di Anna Maria Fabriani, pittrice schiva e "privata" su cui si riflettono tutti i turbamenti artistici del Novecento

Tanti auguri a Anna Maria Fabriani! Che bel regalo di compleanno le ha confezionato sua figlia Sabina Ambrogi. Pescando nel suo corredo di scrittrice e nel suo complesso passato di secondogenita volitiva e ribelle il bisogno di raccontare e festeggiare i cento anni appena compiuti dalla madre. Improvvisandosi curatrice per mettere in scena quell’esordio pubblico da pittrice che lei non si era mai concessa. Una grande mostra, appena inaugurata e in cartellone fino ad ottobre. La prima della vita di Anna Maria. Sigillata dal palcoscenico d’eccezione di un importante museo romano, palazzo Merulana.

Quaranta opere, recuperate a fatica da case, scantinati e soffitte di familiari ed amici, restaurate ed appese alle pareti nel salone riservato ai grandi eventi del quarto piano. A ricostruire le fasi e l’altalena espressiva di una passione per la pittura, coltivata in disparte da quando era ragazza, abbandonata e poi ripresa come un’urgenza segreta, troppo spesso sacrificata al ruolo di custode dell’equilibrio domestico. Come è successo, succede ancora a molte donne decise a praticare il mestiere dell’arte e a sfidare il regime patriarcale che lo ha a lungo governato.

Basta un primo colpo d’occhio ad accorgersi che i lavori di questa singolare retrospettiva non sono prove da dilettante, cimenti da hobby. Ma reggono il confronto con i capolavori certificati ospitati negli altri piani di questo prestigioso palazzo dell’Esquilino, sede di una ricca collezione di artisti della scuola romana. E ne proseguono come echi in controcanto le suggestioni.

Perché è stato proprio questo scrigno di visioni che reagivano alle furie iconoclaste delle avanguardie inizio Novecento, riancorandosi in vario modo alle tradizioni dell’arte di figura, ad accendere lo sguardo e il talento di Anna Maria Fabriani. Nel solco di una vocazione, sigillata alla fine degli Anni Quaranta da un diploma all’Accademia di Belle Arti e poi indirizzata dalla frequentazione dell’atelier di Carlo Socrate (1889-1967), uno degli autori più accreditati di quel nutrito ed eterogeneo drappello di pittori che domina la scena romana tra le due guerre. Ed in particolare di quella più ristretta comunità di artisti premiati dal privilegio di istallare il proprio studio in uno dei capannoni che costellavano il parco di villa Strohl Fern, a ridosso di villa Borghese, da cui poi l’arrivo del liceo francese Chateaubriand li avrebbe sfrattati.

Un mondo fuori dal mondo nel quale Anna Maria Fabriani si adagia per anni. Voltando le spalle all’ingordigia bulimica di quel tempo di ferite che si rimarginano o vengono accantonate, ma anche alla voglia di cambiamento radicale che sta contagiando Roma e l’Italia. All’insoddisfazione per il suo lavoro da impiegata ministeriale con cui si ripaga gli studi, un porto di sicurezza economica al quale non riuscirà mai a rinunciare anche dopo, accettando di insegnare arte a scuola. Un modo per concedersi più tempo e più autonomia, evitando di lanciarsi da professionista nel mercato dell’arte.

Al fianco di Carlo Socrate ha tanto da imparare e impara senza mettersi fretta. I segreti delle velature, i misteri dell’ombra, la scelta dei colori, il gusto dell’inquadratura. Il trattamento con viraggi in grigio dello sfondo, che sa ripetere con ammirabili effetti in uno dei quadri, una natura morta, eseguito a villa Strohl Fern e qui esposto. Una copia da falsario perfetta ma senza anima.

Anna Maria ruba e imita quello che Socrate fa e dice. Contagiata persino “dalla lentezza con cui lavora, lasciando spazio a dubbi ed esitazioni, tic ricorrenti, come quello di grattar via la mattina insoddisfatta segni e impasti che la sera aveva impresso sulla tela, capace di ripete l’operazione per un mese”, racconta sua figlia, incollando ricordi di seconda mano perché all’epoca non era ancora nata. Schiava di un’ammirazione che sembra incondizionata a un maestro che a poco a poco diventa come un padre, scomodo come un padre che a volte ti fa crescere col suo esempio, a volte ti impedisce di farlo. Così forte come figura paterna che al momento di sposarsi, gli chiederà e otterrà persino di farsi accompagnare da lui all’altare.

Un bravo maestro, Carlo Socrate, che ha tanto da insegnare, ma un maestro sedotto dalla sua incondizionata e fervida sudditanza, dai suoi tentativi di assimilarne passo dopo passo la tecnica e l’ispirazione. Graffiante come un test da manuale di psicoanalisi il confronto tra due quadretti che la curatrice è riuscita a recuperare ed espone all’ingresso. Stessa data, il 1957, e stesso soggetto. un vassoio di savoiardi, poggiato su un tovagliolo celeste. Il primo del maestro, un regalo. Il secondo dell’allieva. Sembrano identici. Ma il secondo è solo più nebbioso, quasi un difetto di messa a fuoco, che toglie corpo ed evidenza al mucchio di biscotti. Così impalpabile che sembra voluto. Forse un modo per fare un passo indietro, una confessione d’umiltà chi sta ancora imparando.

Chissà se Socrate glielo ha fatto notare. Chissà se ha apprezzato e incoraggiato quello scarto. Un bravo maestro avrebbe dovuto farlo. Avrebbe dovuto incalzarla a trovare una sua strada, a dirsi per come si è, a chiedersi che cosa si vuol diventare. A non assecondare la vocazione di quella talentuosa giovane amica a concentrarsi su due temi più intimi, ma d’impianto meno complesso: ritratti e nature morte. Un bravo maestro avrebbe cercato di spingerla a trovare un luogo proprio, uno studio, dove collaudarsi come pittrice. A misurarsi con un vero pubblico, trovarsi un gallerista. Procurarsi committenti fuori della sua cerchia di amici. Addestrarla a vincere la sua ritrosia di donna, che la spinge a una passione per la pittura subordinata, scalzata da altri ruoli femminili.

Altre donne di media e alta borghesia come lei, in quegli stessi anni, o poco prima in quelli del regime fascista, hanno incontrato le stesse difficoltà, ma si sono guadagnate più attenzione ed autonomia partendo proprio da lì: una mostra su questa datata platea di pittrici ribelli, in corso al Casino dei Principi si apre non a caso con una serie di autoritratti davanti al cavalletto, in un proprio studio.

Anna Maria Fabriani un suo studio, invece, non l’ha mai avuto. Al massimo un angolino provvisorio. “Negli ultimi vent’anni, da quando ha ripreso in mano i pennelli – racconta la figlia senza nascondere una punta di fastidio – dipingeva in camera da letto. Un odore soffocante di trementina e colori con cui si addormentava e che ti imponeva come un dazio quando andavi a trovarla”.

Eppure quel puzzo che arriva in gola porta il profumo di una svolta radicale e liberatoria, che segna il suo periodo creativo più recente, documentato dal capitolo più intrigante e corposo di questa retrospettiva che parte da un ritratto della nonna inizio Anni Cinquanta e finisce con un’allegoria, La metafisica dei limoni, di cinque anni fa, quando gli acciacchi dell’età avanzata le hanno impedito la fatica delle ore in piedi davanti al cavalletto.

In mezzo, isolato dall’allestimento come un segnalibro biografico, c’è un grande ritratto del marito: Silvano Ambrogi (1929-1996), la presenza maschile che ha più inciso sul suo destino di donna e sul copione di moglie devota e di madre che ha scelto di privilegiare. Un personaggio di spicco, quello scrittore venuto a Roma dalla Toscana a cercare fortuna, una raccomandazione di Luciano Bianciardi ad aprirgli le prime porte del mondo dell’editoria: l’esordio con un romanzo, Le svedesi, sui vitelloni del suo paese in Versilia, poi una densa carriera di intellettuale, scrittore e sceneggiatore costellata da altri libri ben accolti e culminata con il successo egli alti indici di gradimento di una miniserie televisiva, i Burosauri, interpretata in modo impeccabile da Ernesto Calindri e poi ripresa da Benigni.

Ironia, impegno civile solidi valori, scarso senso pratico, gentilezza di modi, tutt’altro che un maschio prevaricatore e tiranno. Forse solo un po’ disattento. Mai una parola per mettere in crisi la vocazione artistica della moglie, forse troppo poche per spingerla a cimentarsi in pubblico e misurarsi con le realtà del suo tempo, come lui riusciva a fare, senza perdere equilibrio e compromettere la vita di coppia.

Di fatto a poco a poco Anna Maria Fabriani abbandona tele e pennelli; allevare le due figlie, insegnare, gestire la casa, adeguarsi ai tempi del marito, non lasciano troppi spazi per altro.

A rimetterla in corsa è la morte del marito, un dolore che infrange le simmetrie dei doveri. Il suo primo atto è riprendere un ritratto del marito da giovane che aveva lasciato incompiuto. Ci rimette mano. Eccolo qua davanti a noi come una boa nella regata di racconti incrociati di questa mostra. Un’impresa impossibile rimettere in moto quella figura abbozzata che è stato il centro della sua vita. Il volto resta immobile, raggelato, lontano, incasellato dietro una colonna di libri che non sanno raccontare i suoi pensieri e i suoi umori. Il quadro non è che una lapide.

Per raggiungerlo ci vuole altro, bisogna liberare i ricordi, come si cospargono le ceneri di un defunto. Decisivo è il suo trasferimento in Versilia, nei luoghi dove Silvano è nato. Tra i paesaggi in cui si è formato. Quelle vedute di campagne e di boschi, ora esposte alla parete, trasmettono la malinconia di una serenità ritrovata. Ma sono solo i cancelli di un bisogno di identità e di pittura che finalmente non è più sogno, ambizione, fuga da eterna allieva.

Nessun terremoto figurativo in questa fase che ci porta verso il suo compleanno da centenaria. Anna Maria Fabriani continua a sfornare scorci da interni, vasi di fiori. Ma raggiunge una vetta di libertà ed espressività che prima aveva solo intravisto. Perché, a me sembra per la prima volta, lascia parlare quegli oggetti che dipinge, gli riconosce una voce che non aveva mai ascoltato. Per questo ora i colori si fanno accesi, rifuggono il buio. Per questo ora fiori e frutti non danno più la sensazione di mettersi in posa come modelli in una scuola di nudo. Si muovono, ci piovono addosso come creature solari. Infrangono confini prospettici, reclamano il qui e ora di inquadrature diverse, impongono l’irrealtà di una luce cinematografica che Anna Maria insegue schermando le finestre della stanza da letto e da lavoro come un direttore di fotografia.

Di una sola cosa questa pittrice che a novant’anni ha ritrovato una pittura senza autocensure e pudori non riesce a fare a meno. La tentazione di guardarsi all’indietro, di trovare consolazione e rifugio negli anni retrocessi da cui partita. Eccola dunque resuscitare gli anni dolci ed enigmatici del realismo magico nel rendere omaggio alla figlia Cecilia, che ora si è trasferita nel paese del padre in Toscana, dove fa la veterinaria, e l’ha accolta per aiutarla a gestire il declino della vecchiaia. La ritrae con un cappellino anni trenta, il volto e l’incarnato levigato da signorina d’altri tempi incastonato contro uno sfondo pastello. Il rischio di un quadro di riverberi datati ha partorito il suo quadro più riuscito ed intenso. La candelina che accende il battesimo di quest’esordio. Un secolo di vita in pochi tratti di pennello.

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