Herman Melville
Moby Dick/5

La ciurma di Achab

Con la presentazione della ciurma di Achab e del suo Pequod continua la pubblicazione del lungo sunto di "Moby Dick" nella versione di Alessandro Macchi, illustrata da Roberto Cavallini

CAPITOLO XLI
MOBY DICK
Io, Ismaele, ero uno di quest’equipaggio: le mie grida s’erano levate con quelle degli altri, il mio giuramento s’era confuso col loro, e, più forte gridavo, più ribadivo e rendevo assoluto questo giuramento per il terrore che sentivo nell’anima. Un mistico, tumultuoso sentimento di comunione con gli altri era in me, l’odio inestinguibile di Achab pareva fosse divenuto il mio odio.

Da qualche tempo, sebbene soltanto a intervalli, la solitaria Balena Bianca aveva incrociato in quei mari barbarici più battuti dai cacciatori di capodogli. Di certo si sapeva che in questa o quella latitudine molte navi avevano incontrato un capodoglio di grandezza e ferocia non comune che aveva inflitto gravi danni ai suoi assalitori per poi far perdere le sue tracce.

Né mancavano voci stravaganti di ogni genere a esagerare e rendere sempre più spaventose le storie vere di questi incontri mortali, perchè nella vita di mare non solo le voci leggendarie, specie se sorprendenti e terribili, crescono naturalmente dalla materia stessa di ogni evento, ma là, nel mare, le fantasie più strane prosperano di più che in terraferma

Solo i balenieri, che più direttamente vengono a contatto con tutto ciò che nel mare è spaventosamente straordinario, guardano a faccia a faccia non soltanto le sue più grandi meraviglie ma le devono combattere mano contro dente.

Nessun stupore dunque che le dicerie sulla Balena Bianca finissero per fare proprie ogni sorta di accenni informi e sbalorditive mezze suggestioni sulle virtù soprannaturali che attribuivano a Moby Dick nuovi terrori che non scaturivano da nulla da ciò che è visibile. Così spesso Moby Dick finiva per produrre un tale panico che pochi di quelli che, attraverso quelle voci straordinarie, avevano sentito parlare della Balena Bianca, pochi di quei cacciatori, avevano voglia di affrontare i pericoli delle sue fauci.

Una delle più stravaganti congetture, era l’idea soprannaturale che Moby Dick avesse il dono dell’ubiquità e che fosse stato davvero incontrato nel medesimo istante a latitudini opposte.

È cosa notissima alle baleniere americane e inglesi che nel remoto nord del Pacifico sono state catturate balene che nei corpi portavano punte di ramponi lanciati nei mari della Groenlandia. E’ altrettanto sicuro che in qualcuno di questi casi è stato affermato che l’intervallo di tempo tra i due assalti non poteva aver superato molti giorni. Di qui, per deduzione, alcuni balenieri hanno creduto che il Passaggio a Nord-ovest, da tanto tempo problematico per l’uomo, non sia mai stato tale per le balene. E così, nella reale esperienza vissuta di uomini viventi, si attuavano le remote leggende dei prodigi raccontati in antico intorno al monte Strello nell’interno del Portogallo (presso la vetta del quale si diceva esserci un lago in cui venivano a galla relitti di navi), e anche quella storia, ancor più meravigliosa, della fonte Aretusa della Sicilia (le cui acque si credevano venute dalla Terra Santa per un passaggio sotterraneo). Si può dire che queste storie favolose fossero quasi pienamente eguagliate dalle realtà dei cacciatori di balene.

Perciò, vivendo e credendo a prodigi come questi e sapendo che, dopo ripetuti e intrepidi attacchi, la Balena Bianca era scampata viva, certi balenieri, e non c’è da meravigliarsi, andavano ancor oltre nelle loro superstizioni e affermavano che Moby Dick non soltanto possedeva l’ubiquità ma era immortale.

Poiché, anche tralasciando congetture soprannaturali, la sua forma fisica e l’incontestabile carattere del mostro bastava a colpire l’immaginazione con efficacia non comune. Non era tanto la sua mole non comune, che così lo distingueva da tutti gli altri capodogli, quanto la sua particolare fronte rugosa, bianca come la neve, e un’alta, piramidale gobba bianca. Questi erano i suoi tratti salienti, i connotati coi quali persino nei mari sconfinati e sconosciuti esso rivelava a grande distanza la sua identità a quelli che la conoscevano.

Il resto del suo corpo era così striato, maculato e marezzato dello stesso colore di sudario che, alla fine, s’era guadagnato il titolo distintivo di Balena Bianca, nome in realtà letteralmente giustificato dal suo vivido aspetto quando lo si vedeva scivolare in pieno meriggio per un mare azzurro cupo, lasciandosi dietro una scia galattica di schiuma lattiginosa, tutta cosparsa di pagliuzze d’oro.

I suoi perfidi voltafaccia sgomentavano forse più di qualunque altra cosa. Poiché, nell’atto di battere in ritirata, con ogni visibile sintomo di timore davanti ai suoi inseguitori esultanti, diverse volte Moby Dick si era voltato all’improvviso e, piombando addosso ai cacciatori, aveva mandato le lance in frantumi e ricacciato verso la nave gli equipaggi terrorizzati.

Solo un capitano, con intorno le sue tre lance sfondate e uomini e remi turbinanti nei gorghi, s’era lanciato sulla balena afferrando dalla prora spaccata il coltello da lenza e, come un duellante dell’Arkansas, aveva tentato ciecamente con la lama di sei pollici di raggiungere la vitalità profonda una tesa del mostro.

Quel capitano era Achab. E fu allora che Moby Dick, passandogli sotto, di colpo aveva falciato la gamba con la sua mandibola falcata come un mietitore fa di un filo d’erba in un campo.

Nessun turco col turbante, nessun sicario veneziano o malese avrebbe potuto colpirlo con la più apparente malvagità.

C’era quindi poco da dubitare che, dopo quell’incontro quasi fatale, Achab avesse nutrito una feroce ansia di vendetta, tanto più accanita dacché nella sua insensata smania morbosa era infine giunta a identificare con Moby Dick non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esasperazione intellettuale e spirituale.

La Balena Bianca gli nuotava davanti come l’incarnazione ossessiva di tutte quelle forze del male da cui certi uomini profondi si sentono rodere nell’intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e con mezzo polmone. Quell’inafferrabile malvagità che è esistita fin dal principio delle cose, e al cui regno persino i Cristiani d’oggi ascrivono metà dei mondi, e che gli antichi Ofiti dell’Oriente veneravano nel loro demonio scolpito nella pietra. Di fronte a questa malvagità Achab non cadeva in ginocchio ad adorarla come gli Ofiti ma, trasferendone freneticamente l’idea nell’aborrita Balena Bianca, le si lanciava contro, così mutilato com’era.

Egli accumulava sulla gobba bianca della balena la somma di tutta I’ira e di tutto l’odio provati dall’intera sua razza fin dal tempo di Adamo, e poi, come se il suo petto fosse un mortaio, le sparava addosso la bomba del suo cuore bruciante.

Quando, falciato da Moby Dick nell’incontro fatale, fu obbligato a mettere la prora verso la patria, per lunghi mesi, giorni e settimane, Achab e il dolore giacquero insieme distesi in una branda, doppiando nel cuore dell’inverno quel tetro e ululante Capo di Patagonia

Durante la traversata Achab fu pazzo furioso, e anche se minorato, gli covava ancora nel gran petto di statua egizia una tale forza vitale, intensificata anzi dal delirio, che i suoi ufficiali furono costretti a legarlo stretto, mentre navigava farneticante, anche là nella branda.

Il delirio del vecchio parve abbandonarlo nel mare gonfio del Capo Horn e gli ufficiali ringraziarono Dio che la terribile pazzia fosse finalmente passata; ma ancora, sempre, Achab nel suo io segreto continuava a farneticare. La pazzia umana è sovente cosa scaltra e terribilmente ferina.

ln questa vasta esaltazione non era venuta meno neppure un briciolo della sua grande forza mentale naturale. Questa, che era prima un agente di vita, divenne ora lo strumento che Achab possedeva per quest’unico scopo, una potenza mille volte maggiore di quella ch’egli avesse mai diretto da sano a un qualunque fine ragionevole.

Nel suo cuore Achab aveva qualche sentore di ciò; vale a dire: tutti i miei mezzi sono sani, il mio movente e il mio fine sono insensati.

Ecco dunque questo vecchio empio e grigio inseguire per il mondo con maledizioni una balena degna di Giobbe, alla testa di un equipaggio fatto principalmente da bastardi rinnegati, di reietti e di cannibali.

CAPITOLO XLII
LA BIANCHEZZA DELLA BALENA
Era la bianchezza della balena che sopra ogni altra cosa mi atterriva sebbene tra le sante cerimonie della fede cattolica il bianco sia particolarmente impiegato nella celebrazione della Passione di Nostro Signore; sebbene nell’Apocalisse di san Giovanni i redenti indossino paramenti bianchi e i ventiquattro anziani siano vestiti di bianco dinanzi al grande trono bianco e il Santo che vi siede è bianco come la lana; pure, malgrado tutte questa montagna di associazioni con tutto ciò che è dolce e venerabile e sublime, (marmi, camelie, perle, bianchezza che raffina la bellezza, regali elefanti bianchi, il cavallo bianco dai grandi occhi delle praterie del West, Giove che si incarna in un toro bianco, la bandiera di Hannover con un destriero bianchissimo) sempre cova nell’intima idea di questo colore qualcosa di elusivo che incute più panico all’anima di quel rosso che atterrisce nel sangue.

Forse la bianchezza adombra per la sua indefinitezza i terribili vuoti e le immensità spietate dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero del nulla, quando contempliamo le profondità bianche della Via lattea? Oppure avviene che nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore quanto l’assenza visibile di colore e nello stesso tempo la fusione di tutti i colori: avviene per questo fatto che c’è una tale vacuità muta e piena di significato in un paesaggio vasto di nevi, un ateismo di colori, un amalgama che ci fa rabbrividire?

Non si può dubitare che la qualità visibile nell’aspetto dei morti che più ci atterrisce è il pallore marmoreo dei loro aspetti: come se davvero quel pallore fosse altrettanto il segno dello sbigottimento per l’al di là, quanto della trepidazione mortale in questo esistere. E da quel pallore dei morti noi prendiamo il significativo colore del sudario in cui li avvolgiamo.

Nemmeno nelle nostre superstizioni manchiamo di gettare lo stesso niveo mantello intorno agli spettri, tutti i fantasmi sorgendo in una nebbia lattiginosa. Sì, e se siamo soggetti a tali spaventi, bisogna aggiungere, che il re stesso del terrore, com’è personificato dall’evangelista, cavalca su un cavallo pallido.

Perciò l’uomo, pur nei suoi diversi stati d’animo, simboleggi pure qualsiasi cosa magnifica o bella col bianco, nessuno può negare che questo colore nel suo più profondo significato spirituale evochi nell’anima una spettralità particolare.

Di tutte queste cose la balena bianca era il simbolo. Perché allora desta meraviglia questa caccia feroce?

CAPITOLO XLIV
LE CARTE NAUTICHE
Nella solitudine della cabina, Achab meditava sulle sue carte. Quasi ogni notte lui le tirava fuori, e quasi ogni notte, veniva cancellato qualche segno di matita, e altri segni sostituiti. Così con le carte di tutti e quattro gli oceani innanzi, Achab intesseva grovigli di correnti e di gorghi mirando alla più sicura riuscita di quell’ossessivo pensiero che aveva nell’anima.

Ora, a chiunque non conosca bene le abitudini dei Leviatani, potrebbe parere un’impresa assurdamente disperata andare così alla ricerca di una singola solitaria creatura per gli oceam sconfinati del nostro pianeta. Ma non così pareva ad Achab che conosceva le leggi di tutte le maree e delle correnti e perciò, calcolando le derive del cibo dei capodogli e inoltre tenendo presenti le stagioni regolari e accertate per la caccia nelle particolari latitudini, poteva giungere a ragionevoli congetture, quasi a certezze, intorno al giorno più opportuno per trovarsi in questo o quel tratto di mare alla ricerca della preda.

D’altra parte, quando migrano da una zona di pascolo a un’altra, i capodogli, guidati da un loro istinto infallibile, diciamo anzi da qualche segreto avvertimento divino, nuotano il più delle volte in vene, come vengono chiamate, proseguendo lungo una data linea oceanica, con una tale inflessibile esattezza, che nessuna nave ha mai percorso la propria rotta, qualunque carta avesse, con la decima parte di quella meravigliosa precisione.

Sebbene in questi casi la direzione presa da qualunque balena anche singola sia come determinata da un geometra, pure la vena stimata, nella quale si pensa che la balena nuoti, abbraccia generalmente alcune miglia di larghezza (più o meno, poiché si presume che la vena s’espanda o si restringa), ma non eccede mai la portata della vista dalle teste d’albero della baleniera che si muove con circospezione lungo questa magica zona. La conclusione è che, in particolari stagioni, entro quella larghezza e lungo quella via, si possono con notevole certezza cercare balene migranti.

Ma nella realtà non è solo così. Sebbene i branchi di capodogli abbiano delle stagioni regolari per trovarsi in date aree di mare, pure non si può concludere in generale che le mandrie che hanno frequentato la tal latitudine o longitudine quest’anno, siano le stesse che vi si sono trovate nella stagione precedente.

Cosicché, sebbene Moby Dick fosse stato avvistato anni prima, per esempio in quella che si chiama la zona delle Seychelles nell’Oceano Indiano o nella Baia del Vulcano sulla costa del Giappone, da ciò non ne seguiva che, se il «Pequod» si fosse trovato in una di queste località in un qualunque anno successivo, avrebbe dovuto incontrarlo immancabilmente. Lo stesso si dica per qualche altra zona di pascolo, dov’egli s’era a volte fatto vivo. Tutti questi luoghi apparivano soltanto i suoi soggiorni o, per così dire, le occasionali sue locande oceaniche, non i luoghi dove risiedere a lungo.

Questi tempi e luoghi determinati erano riassunti in un’unica definizione tecnica: la Stagione all’Equatore. Poiché là e in quel tempo, per diversi anni consecutivi, Moby Dick era stato avvistato soffermarsi periodicamente per un po’, come il sole nel suo giro annuale si sofferma in ciascun segno dello Zodiaco per un intervallo prefissato. Là pure aveva avuto luogo la maggior parte degli incontri mortali con la Balena Bianca, là le onde erano istoriate delle sue gesta, là infine era il tragico punto dove il vecchio ossessionato aveva trovato il terribile movente della sua vendetta

“E non l’ho forse marcata, segnata la balena” borbottava tra sé e sè Achab quando, dopo aver elucubrato sulle sue carte fino a lungo dopo mezzanotte, si rituffava nelle fantasticherie: “segnata, mugugnava, e lei, Moby, mi dovrà forse sfuggire?”

Sovente, quando dalla branda lo cacciavano spossanti sogni notturni, insopportabilmente reali, che riprendendo i suoi pensieri intensi della giornata li continuavano in un tumulto di frenesie e glieli facevano turbinare e turbinare nel cervello infiammato, quando questo suo inferno interiore gli si spalancava al disotto, un urlo feroce si udiva per tutta la nave, e Achab, con gli occhi sbarrati, si precipitava fuori della cabina, come se fuggisse da un letto incendiato.

Pareva che Achab quando usciva a precipizio dalla cabina, fosse per tutto il tempo soltanto una cosa vuota, un ‘informe sonnambulo che, sì, era un raggio di luce vivente, ma privo di un oggetto da colorare e perciò qualcosa di vuoto.

Che Dio t’aiuti, vecchio: i tuoi pensieri hanno creato in te una creatura, e, a chi a forza di pensare si trasforma in un Prometeo, un avvoltoio divora il cuore per sempre, e quest’avvoltoio è la creatura stessa ch’egli ha creato.

CAPITOLO XLV
LA TESTIMONIANZA
Così ignorante è la maggior parte degli uomini di terraferma di alcune delle più palesi e tangibili meraviglie del mondo, che, senza qualche accenno intorno ai puri fatti storici o meno della pesca, potrebbe disdegnare Moby Dick come una favola mostruosa o, ancor peggio e più detestabile, come una insopportabile allegoria.

Famosi capodogli godettero di una celebrità individuale che anzi si potrebbe definire rinomanza oceanica, famosi in vita e, dopo, immortali nei racconti del castello di prora.

Timor Tom famosissimo leviatano, eroso come un iceberg, si acquattava per lungo tempo nell’omonimo stretto orientale sfiatando con degli zampilli tali da essere visti dalla spiaggia di palmizi di Ombay.

O New Zealand Jack terrore di tutti i bastimenti che incrociavano le loro scie nella vicinanza della Terra dei Tatuaggi, o Morguan, Re del Giappone, il cui alto zampillo, dicono, si alzava nel cielo come una candida croce; Don Miguel, capodoglio cileno, con il dorso segnato da numerosi geroglifici come una vecchia tartaruga.

Molti, innumerevoli fatti sono da dire su stragi di navi e di uomini che nel mondo testimoniano avvenimenti reali e sono importanti per stabilire la ragionevolezza di tutta la storia della Balena Bianca e più particolarmente della catastrofe. ….

Nell’anno 1820 alla nave Essex, capitano Pollard di Nantuchet, un enorme capodoglio nell’oceano Pacifico gli diede con la fronte un tal botto che in dieci minuti la nave affondò; solo parte dell’equipaggio si salvò e riprese la caccia con altra nave e ancora gli Dei marini lo fecero naufragare su scogli e frangenti. Ora abita a Owen Chase e io lo conosco.

La nave Union di Nantuchet nel 1807 andò perduta alle Azzorre in analogo assalto.

Diciotto o vent’anni fa il commodoro J. di una corvetta americana di prima classe, scettico dei fatti, come ebbe a dire pranzando con un gruppo di capitani nel porto di Oahu, isole Sandwich, facendo rotta con il suo inespugnabile Val Paraiso, un capodoglio lo invitò a un rapido scambio di vedute che si concluse con una tale botta da inviarlo con tutte le pompe in moto al più vicino scalo.

E per non dire dei viaggi di Lagsdorff e di inusitate avventure con i capodogli essendo capitano di una delle navi D’Wolf e di quel capitano io sono il nipote. ….

La nave inglese Pusie Hall racconta a proposito di capodogli che non solo hanno rincorso le navi assalitrici ma che la forza del gran pesce è stata tale da rimorchiare le navi con le lenze dei ramponi in corpo come cavalli che tirano un carro …. E negli annali si trovano annotati più di cinquanta episodi analoghi. …

…. Sono tutte tangibili meraviglie del mondo della natura.

CAPITOLO XLVI
CONGETTURE
Per raggiungere il suo scopo Achab doveva usare degli strumenti, e di tutti gli strumenti che si adoperano in questo mondo sotto la luna gli uomini sono i più facili a guastarsi.

Né Achab trascurava un’altra cosa. Nei momenti delle forti emozioni gli uomini sdegnano ogni considerazione materiale, ma tali momenti svaniscono presto. La permanente condizione organica dell’uomo così com’è fatto, pensava Achab, è l’avidità.

Concediamo pure, pensava Achab, che la Balena Bianca stimoli pienamente i cuori di questo mio selvaggio equipaggio, e che anzi, rimescolandone la ferocia, susciti in loro una certa generosità come di cavalieri erranti, tuttavia, mentre per amor di essa danno la caccia a Moby Dick, bisogna pure che sfamino i loro appetiti più comuni e quotidiani.

Non priverò questi uomini, concludeva Achab, di tutte le loro speranze di fare quattrini, sì, quattrini. Li disprezzano adesso, magari, i quattrini, ma lasciamo che passi qualche mese e che nessuna promessa di guadagno sia in vista e allora questa ciurma che appare così remissiva, ammutinandosi nei loro animi avrà senz’altro l’effetto di liquidare Achab che tradisce per il suo scopo privato quello per cui sono imbarcati.

Per tutte queste ragioni, Achab s’accorgeva chiaramente di dover pur sempre mantenersi fino un certo punto fedele allo scopo naturale e nominale del viaggio del «Pequod»: osservare tutte le usanze tradizionali non solo, ma cercava di sforzarsi di mostrare tutto il suo ben noto appassionato interesse nell’esercizio ordinario del mestiere.

Comunque sia, la sua voce si udiva ora spesso apostrofare le tre teste d’albero, ricordando loro di far buona vedetta e non lasciar di segnalare nemmeno una focena. E non tardò molto che questa vigilanza fosse premiata.

CAPITOLO XLVII
L’INTRECCIATORE DI STUOIE
Quiqueg ed io eravamo placidamente occupati a intrecciare ciò che si chiama una stuoia a sciabola per rinforzare ulteriormente la nostra lancia.

Era un pomeriggio nuvoloso, afoso, la scena era tranquilla e sommessa eppure c’era un’aria in qualche modo piena di presagi e ogni marinaio sembrava dissolto nel suo io invisibile.

Continuavo a far passare e ripassare i fili della trama di riempitura tra i lunghi fili dell’ordito usando le mani come spola e Quiqueg passava di tanto in tanto la sua pesante sciabola di quercia per mettere ordine nella trama tra i fili tesi dell’ordito

Ecco lì i fili tesi, immobili, soggetti solo a un’unica, sempre uguale, immutabile vibrazione dell’atto di tessere, per permettere giusto l’incrocio di altri fili passati dalla spola coi suoi a completare il tessuto.

Quest’ordito diritto pareva la Necessità; ed io pensavo, “ecco con le mie mani manovro la mia spola e intreccio il mio destino in questi fili inalterabili”. Intanto la sciabola istintiva e indifferente di Quiqueg, che talvolta colpiva la trama o per obliquo o per storto, o troppo forte o troppo piano, colpiva come decide il caso, e mi dicevo questa indifferenza nei colpi conclusivi produce un corrispondente contrasto nell’aspetto ultimo del tessuto terminato: la sciabola di questo selvaggio, pensavo, deve essere il Caso: il Caso, sebbene limitato nel suo gioco entro le linee rette dell’ineluttabilità dell’ordito e obliquamente guidato nei movimenti del tessere mossi con la spola del libero arbitrio, ebbene lui, il caso, benchè così controllato da entrambi, domina l’uno e l’altro a turno e dà l’ultimo tocco agli eventi, quello che dà loro la forma.

Stavamo così tessendo e ritessendo, quando io trasalii a un suono tanto bizzarro, tanto prolungato e musicalmente selvaggio e ultraterreno, che il gomitolo del libero arbitrio mi sfuggì dalla mano e rimasi a guardare le nubi da dove quella voce scendeva come un’ala. In alto, lassù sulla crocetta, c’era quel matto Capo Allegro, Tashtego.

Mentre stava così librato al disopra di tutti, mezzo sospeso nell’aria, fissando tanto selvaggiamente e avidamente contemplasse l’orizzonte, lo si sarebbe detto un profeta o veggente che placa le ombre del Destino e con quelle grida sfrenate ne annunciasse la venuta.

Laggiù soffia! là! là! là! soffia! soffia!

Che direzione?

Per il traverso sottovento, due miglia circa! Un branco!

Istantaneamente tutto fu una eccitazione.

-Laggiù code! – s’udì ora Tashtego gridare, e le balene scomparvero.

Il capodoglio sfiata con un ritmo come il tichettio di un pendolo, con la stessa uniformità sicura e infallibile: per vederle riemergere si consulta il tempo.

Svelto, cambusiere! — gridò Achab. — L’ora! prendi l’ora!

La nave venne subito messa in direzione del vento e andava rollandogli davanti, di poppa, leggera. Poichè Tashtego aveva annunciato che le balene s’erano tuffate procedendo a sottovento, noi speravamo di vederle riemergere direttamente alla nostra prora. Poiché nel nostro caso pareva non valere quell’astuzia singolare mostrata a volte dal capodoglio quando tuffatosi di testa in una direzione, si gira mentre è nascosto sotto la superficie e nuota in fretta dalla parte opposta, ma questo suo sotterfugio non poteva ora essere stato messo in pratica perché non c’era ragione di supporre che i pesci visti da Tashtego fossero in qualche modo allarmati o già sapessero addirittura della nostra vicinanza.

Il pennone di maestra venne ammainato, e le tre lance dondolavano sul mare; come su una nave da guerra gli equipaggi in attesa erano aggrappati fuori dalla murata.

Quel momento critico venne distratto da un urlo: tutti trasalirono, era comparso il cupo Achab affiancato da cinque scuri fantasmi materializzatisi all’improvviso quasi impastati d’aria.

CAPITOLO XLVIII
LA PRIMA DISCESA IN MARE
Il fosco Achab era attorniato da cinque fantasmi scuri, formati allora, pareva, dall’aria.

La figura che stava ora presso la prora era un uomo alto e fosco, scuro, con un aguzzo dente bianco che sporgeva malvagiamente dalle labbra simili all’acciaio. Lo rivestiva in modo funereo una spiegazzata giacchetta cinese di cotone nero con grandi brache nere della stessa materia tenebrosa. Ma a coronare bizzarramente questo suo color d’ebano, portava uno splendente turbante bianco intrecciato, i vivi capelli erano tirati su e arrotolati in molti giri sulla testa.

Meno foschi di aspetto, i compagni di costui avevano quella vivace carnagione giallo-tigre peculiare di certi indigeni nativi di Manila, una razza famigerata per una certa diabolica astuzia.

Achab gridò al vecchio dal bianco turbante che li comandava: — Tutto pronto lì, Fedallah?

-Pronto – fu la risposta come un sibilo.

-Calate, allora, avete capito tutti? – urlò attraverso il ponte. -calate giu oè- dico.

Fu tale il rimbombo della voce che, nonostante lo stupore, i marinai balzarono sulla battagliola della murata, le pulegge turbinarono nei bozzelli e con un rollio le tre lance piombarono in mare, e insieme con una svelta e disinvolta audacia, sconosciuta in qualunque altra professione, i marinai saltavano come caproni dalla fiancata beccheggiante della nave nelle lance sballottate di sotto.

Le tre lance erano appena uscite dal sottovento della nave, quando un quarto scafo, giungendo dalla banda a sopravvento, girò intorno alla poppa e rivelò i cinque estranei voganti per Achab che, dritto in piedi a poppa, gridava forte a Starbuck, Stubb e Flask di aprirsi a ventaglio, in modo da coprire un grande spazio di mare.

Forza, forza, belli, coraggio! Sospirò Stubb, viziando la voce in tono carezzevole rivolto al suo equipaggio dove qualcuno si mostrava ancora irresoluto. Fregatevene di quei tipi gialli, i diavoli sono gente simpatica, ci daranno una mano.

Ma perché non vi spezzate quella schiena, ragazzi? Così, così: adesso così va bene: è una remata da mille libbre, è la remata che fa vincere la partita! Urrah per la coppa d’oro piena di spermaceti di balena, o paladini miei! Tre evviva, marinai: tutti bravi siete! Piano adesso, piano, piano: non prendetevela calda, non prendetevela calda… Ma perché non spaccate i remi, farabutti? Mordete un po’, canaglie! Così, così, così: ecco, calmi, calmi! Va, va! remata lunga e robusta. Vogate là, vogate! Che il diavolo vi strangoli, mascalzoni pezzenti! siete tutti addormentati? Non russate, dromedari; su, forza! forza, dico! forza, voglio! forza, voi! Ma perché, per un cavolo a merenda, non fate forza? fate forza e rompetevi qualcosa! fate forza, che vi schiattino, gli occhi! Così’ — e si strappò dalla cintola il coltello affilato — ognuno di voi figli di buona madre tiri fuori il coltello e faccia forza, con la lama tra i denti. Va, va! E adesso faremo qualcosa che valga la pena, miei pezzi d’acciaio. Datele un colpo, datele un colpo, miei figli del sole! Datele un colpo, figli di cani!

Egli urlava all’equipaggio le cose più terrificanti, in un tono così stranamente misto di scherzo e di furia, e la furia era così dosata in apparenza per dare pepe allo scherzo, che nessun rematore poteva stare a sentire simili strambe incitazioni senza dare di voga come un matto ma sempre soltanto per il puro lato divertente della cosa.

Starbuck era vicino di prua alla barca di Stubb e Stubb disse, “che ne pensate di quei diavoli gialli, signore?” E Starbuck “imbarcati di straforo, chissà come. Ma non fateci caso signor Stubb, s’arrangia tutto” e alla sua barca, “vogate, vogate, scattate: ci sono botti di olio li davanti e per questo siete venuto signor Stubb”. Forza ragazzi è l’olio che conta!

Non molto lontano, anche la barca di Flask era in trepidate attesa e il piccolo Flask era arrampicato su un robusto palo piantato nella chiglia, era lassù appollaiato ma non vedeva al di là delle onde più grandi e allora il gigantesco nero Deggu offri le sue grandi spalle come piedestallo.

Eccole, si senti il grido: l’aria vibrò e fremette come sopra a un ferro arroventato, l’atmosfera ondeggiava e si arricciava a spirale: sotto un sottile strato d’acqua nuotavano le balene ma il segnale di aria e acqua si allontanava rapidamente e continuava a fuggire come un impetuoso torrente che scenda da un colle.

Tutte e quattro le lance si buttarono all’inseguimento del punto dove acqua e aria le indicavano.

Achab, lontano dai suoi ufficiali a sopravento, stava avanzando in testa tanto forte era il suo equipaggio ai remi, sembravano fatti d’acciaio e osso di balena.

Ma che cosa l’impenetrabile Achab dicesse al suo equipaggio giallo-tigre, erano parole che qui è meglio tralasciare, poiché voi vivete sotto la luce benedetta della terra evangelica. Soltanto gli empi squali negli oceani temerari possono udire parole come quelle che Achab, con la fronte tempestosa, gli occhi rosso-assassino e le labbra invischiate di schiuma, diceva balzando dietro alla sua preda.

Di colpo il braccio teso da schermidore di Achab fece uno strano movimento poi si fermò e tutte le lance si fermarono, i remi posti in verticale, a piombo.

Le balene si erano immerse irregolarmente nell’azzurro quasi scomparendo ma Achab, più vicino ne seguiva i movimenti.

Era uno spettacolo pieno di viva meraviglia e di spavento. Le grandi ondate dell’onnipotente oceano respiravano rigonfiandosi, gigantesche, e il ruggito crescente che facevano scorrendo lungo gli otto capi di banda, forti come enormi bocce in un campo da gioco sconfinato, rendevano durissima l’angoscia della lancia ed erano occhi di spavento quando per qualche attimo la lancia si drizzava come sospesa sull’orlo di coltello delle onde più affilate, che parevano quasi minacciare di tagliarla in due, poi d’improvviso piombava nel profondo nelle valli e nei cavi d’onda delle acque e si sentivano forti gl’incessanti incitamenti e incoraggiamenti a guadagnare la vetta della nuova collina sopraggiungente.

Come una chioccia, l’eburneo Pequod a vele spiegate si avvicinava veloce alle sue lance, ansioso.

La danzante acqua bianca prodotta dalla fuga delle balene diventava ora sempre più visibile, evidenziata com’era dalla crescente oscurità prodotta dalle ombre nerastre delle nuvole proiettate sul mare. I getti di vapore degli sfiati non erano più ordinati ma si mostravano da ogni parte a dritta e a sinistra; le balene sembravano aver separato le loro rotte.

Né la recluta meno esperta, che uscendo di tra le braccia della moglie entra nell’ardore febbrile della sua prima battaglia, né lo spirito del morto che incontra nell’altro mondo il primo fantasma sconosciuto , ebbene nessuno di costoro può sentire emozioni più strane e più forti di quelle di chi si trova per la prima volta a vogare nell’incantata e ribollente cerchia di schiuma del capodoglio inseguito.

Presto ci trovammo a correre attraverso un diffuso velo immenso di nebbia leggera, e non si vedevano né nave né lance.

Vogate, marinai, — bisbigliò Starbuck alando ancora più a poppa la scotta della vela — c’è ancora tempo per uccidere un pesce prima che venga la burrasca. Ecco di nuovo l’acqua bianca! sotto! scattate!

Subito dopo, due urli in rapida successione dai due lati ci avvertirono che anche le altre lance erano giunte vicinissime all’obbiettivo, ma li avevamo appena uditi che, con un fulmineo sibilante bisbiglio, Starbuck disse: — Su, drizzati! e Quiqueg col rampone alla mano saltò in piedi.

L’istante critico era giunto e udimmo improvviso un suono enorme di rivolgimento, come se cinquanta elefanti si muovessero nel loro strame. Intanto la lancia filava ancora nella nebbia, le onde arricciavano e sibilavano intorno come le creste erette di serpenti infuriati.

Ecco la gobba, lì, lì, dàlle di rampone! — bisbigliò Starbuck.

Un breve suono vibrante guizzò dalla lancia; era il ferro scagliato di Quiqueg. Poi, tutto in una gran confusione, giunse una spinta invisibile da poppa, mentre a prora la lancia pareva picchiare su uno scoglio: la vela cadde ed esplose, una vampata di vapore bollente ci schizzò accanto, qualcosa sotto di noi rollò e rovinò come un terremoto. L’equipaggio tutto fu quasi soffocato mentre veniva gettato alla rinfusa nella bianca spuma sbattuta dalla raffica. Raffica di burrasca, balena e rampone s’erano tutti fusi insieme, e la balena, solamente scalfita dal ferro, fuggiva.

Sebbene completamente riempita d’acqua, la lancia era quasi incolume. Nuotandole attorno, raccogliemmo i remi galleggianti e, gettandoli oltre il bordo, ricapitolammo ai nostri posti.

Il vento aumentò fino a ululare, le onde cozzavano assieme i loro scudi, tutta la raffica muggì, si divise e ci crepitò intorno come un incendio di prateria in cui noi bruciassimo senza consumarci, immortali nelle fauci stesse della morte.

Invano gridammo alle altre lance. Intanto la fulminea foschia — nuvolaglia e vapori di nebbia — si fece più scura con le ombre della notte e della nave nessun indizio.

Tagliando la legatura del bariletto impermeabile degli zolfanelli, Starbuck riuscì dopo molti tentativi vani ad accendere la lampada nella lanterna, e poi, innalzandola su un palo di segnalazione, la tese a Quiqueg come all’alfiere della nostra disperata speranza. Ed eccolo tenere alta la debole luce nel cuore di quell’onnipotente abbandono. Eccolo, insegna e simbolo di un uomo senza fede che disperatamente teneva alta la speranza in mezzo alla disperazione.

Noi tutti udimmo un lontano schioccare come di cordame e di pennoni, soffocato fino allora dalla burrasca. Il rumore si faceva sempre più vicino; le nebbie dense si separarono vagamente davanti a una forma grande e incerta ma incombente. Atterriti saltammo tutti in mare, mentre la nave finalmente apparve, venendo di filata su di noi, a una distanza che non superava di molto la sua lunghezza.

Vedemmo fluttuare sulle onde la lancia abbandonata, poi lo scafo enorme le rollò sopra, ed essa non si vide piu finché non emerse sfasciata a poppa. Di nuovo le nuotammo incontro, le fummo sbattuti addosso dai marosi ma finalmente venimmo raccolti e deposti al sicuro sulla nave.

CAPITOLO XLIX
LA IENA
Ci sono certe bizzarre circostanze e occasioni in questa strana e caotica faccenda che chiamiamo la vita, che un uomo considera l’intero universo come una grande beffa in atto, sebbene non riesca a vederne troppo chiaramente l’arguzia, e sospetti che la beffa o burla non sia alle spalle di altri ma piuttosto sulle sue.

Niente come i pericoli della caccia alle balene riescono a far nascere questo tipo spensierato di geniale filosofia da disperati; ed era così che io ora consideravo l’intero viaggio del «Pequod» e la grande Balena Bianca, suo scopo.

Tutto fradicio, sentito Quiqueg e Stubb, che si era acceso la pipa nella pioggia, e considerato che anche per Starbuk era normale buttarsi a vele spiegate su balene che fuggono in mezzo alla nebbia e alla burrasca, considerato perciò che colpi di vento e capriole in acqua, con i conseguenti bivacchi sull’abisso, erano casi di cronaca ordinaria in questa specie di esistenza, e finalmente, considerato in che razza di caccia demoniaca io fossi immischiato per via della Balena Bianca: tutte queste cose considerate, dico, pensai che tanto valeva scendere sotto coperta e stendere un primo rapido abbozzo del mio testamento.

CAPITOLO LI
LO SPRUZZO FANTASMA
Passarono giorni e settimane e, spinto da vele ridotte, l’eburneo «Pequod» aveva lentamente attraversato quattro diverse zone di caccia: quella al largo delle Azzorre, al largo del Capo de Verdes, la Plata, cosiddetta, essendo davanti alla foce del Rio della Plata, e la Zona Carrol, in una aperta località oceanica, a sud di Sant’Elena.

Fu in una serena notte di silenzio in quest’ultima zona dell’oceano, che uno spruzzo d’argento si vide lontano, nella direzione delle bianche onde rotolanti a prora. Illuminato dalla luna, pareva un portento celeste; sembrava un dio piumato e splendente che sorgesse dal mare. Fedallah per primo avvistò quel getto luminoso. S’udì la sua voce ultraterrena dalla cima dell’albero di maestro segnalare quell’argenteo spruzzo lunare, ciascun marinaio balzò in piedi come se qualche spirito alato fosse disceso sull’alberatura per rivolgere la parola all’equipaggio mortale.

«Laggiù soffia!” e rabbrividimmo come per la tromba del giudizio.

Percorrendo il ponte a falcate rapide e storte, Achab fece dispiegare velacci e controvelacci e tendere tutte le vele di coltellaccio e la nave sfrecciava veloce, ma quella notte non lo si vide più.

Misteriosamente in quelle azzurre blandizie dell’ingannevole tempo sereno, lo spruzzo sgorgava alto nella limpida luce lunare o stellare, come capitava, ritornando a scomparire per un giorno intero, o due o tre, e in certo modo apparendo in ogni sua nuova comparsa sempre più discosto sulla nostra avanguardia, questo spruzzo solitario pareva lusingarci per sempre a procedere. Tutti parevano giurare che quell’irraggiungibile spruzzo fosse lanciato da Moby Dick che ci invitava perfidamente a spingerci sempre più avanti per poi rivoltarcisi addosso, vero mostro, e farci finalmente a pezzi nei mari più remoti e selvaggi.

Finalmente, quando rivolgemmo la prua all’est, cominciarono ad ulularci intorno i venti del Capo e noi ci alzammo alti poi ricademmo giù sui lunghi cavalloni sconvolti che sono in quella parte dell’oceano, quando, ecco, il «Pequod» dalle zanne d’avorio s’inchinò seccamente alla raffica e squarciò all’impazzata le onde nere, finché, simili a rovesci d’argento, fitte bordate di schiuma gli volarono sulle murate; allora, tutta questa desolata vacuità di vita se ne andò, ma lasciò luogo a spettacoli più paurosi ancora.

Vicino alla prora, nell’acqua, strane forme ci guizzavano innanzi da ogni parte, mentre a poppa volavano fitti i misteriosi corvi di mare. E tutte le mattine si vedevano, appollaiati sugli stragli, stormi di questi uccelli che malgrado i nostri stentorei urli stavano a lungo fermi, fissi ostinatamente sui canapi, come se considerassero la nostra nave un legno alla deriva, disabitato, un oggetto destinato alla desolazione e perciò adatto posatoio per le loro anime erranti.

E il mare nero si gonfiava, si gonfiava, e ancora senza posa si alzava, come se le sue immense maree fossero la sua coscienza, e la grande anima del mondo sentisse angoscia e rimorso del lungo peccato e dolore che aveva generato.

Capo di Buona Speranza, lo chiamano? Capo Tormentato piuttosto, come nei tempi antichi. Ma calmo niveo e immutabile gettando verso il cielo la sua fontana piumata e sempre facendo cenno di andare avanti, lo spruzzo fantasma ogni tanto compariva.

In circostanze tempestose come quelle, dopo avere assicurato ogni cosa in coperta e sull’alberatura, non si può fare nulla più che aspettare passivamente che finisca il colpo di vento di burrasca. Allora capitano ed equipaggio diventano del tutto fatalisti.

Così, con la gamba d’avorio inserita nella solita buca e con una mano strettamente afferrata a una sartia, per ore e ore, Achab se ne stava là a guardare fisso il vento, la lanterna in una mano e sulla tavola accanto le sue carte: ogni tanto una raffica di nevischio o di neve quasi gli univa le ciglia in una morsa di gelo.

Terribile vecchio- pensò Starbuk con un brivido -anche mentre dormi in questo uragano, tieni sempre lo sguardo fisso al tuo scopo.

CAPITOLO LII
L ‘ALBATRO
A sud est del Capo al largo delle lontane Crozetts, una buona zona per la caccia alla balena franca, una vela ci apparve a prora, il “Goney”, (l’Albatro).

Mentre lentamente si avvicinava, dal mio “posatoio”, alto sulla testa dell’albero di trinchetto, vidi a mio agio quello spettacolo così interessante per un novizio della pesca oceanica. La nave era tutta scolorita come lo scheletro di un tricheco arenato: era anni che era lontana da casa, dal suo porto di Nantuchet, a cerca di balene negli oceani.

Sotto l’albero, si sentì dal cassero forte un richiamo:

“Oh! Ohi! voi della nave! Avete visto la Balena Bianca?!

Ma mentre il capitano sconosciuto, piegandosi sulla pallida murata, era in atto di mettersi alla bocca il megafono, questo gli sfuggì in qualche modo di mano e cadde in mare: un colpo di vento tagliò la sua voce e intanto la distanza delle navi aumentava.

Achab stette un momento in forse, e parve quasi che volesse ammainare una lancia per salire a bordo degli sconosciuti, se il vento minaccioso non lo avesse impedito.

Poi Achab gridò forte: —” Oh, laggiù! Questo è il Pequod che fa il giro del mondo! A Nantuchet dite di indirizzare le lettere nell’oceano Pacifico e, se fra tre anni non torno, di indirizzarle all? … ”

In quel momento le due scie s’erano incrociate completamente e, d’improvviso, secondo le loro singolari abitudini, banchi di piccoli pesci innocui che da qualche giorno ci stavano placidamente nuotando accanto, guizzarono via con pinne che parvero rabbrividire e si disposero da prora a poppa lungo i fianchi della nuova nave sconosciuta.

“Mi abbandonate, voialtri?” mormorò Achab guardando nell’acqua. Pareva esserci poco in queste parole, ma il tono era improntato a una profonda e disperata tristezza più intensa di quella che il vecchio folle avesse mai lasciato intendere. Ma volgendosi al timoniere che fino allora aveva mantenuto la nave controvento per diminuirne l’abbrivo, gridò con la sua antica voce leonina:

—”Barra a sopravvento! Raddrizzala, per il giro del mondo! … Il giro del mondo!”

C’è molto in queste parole che ispirano sentimenti d’orgoglio; ma dove ci porta tutta questa circumnavigazione? nell’inseguire quei lontani misteri di cui sognamo?

O forse inseguendo misteri lontani nella caccia tormentosa di quel fantasma demoniaco, che prima o poi nuota dinanzi a tutti i cuori umani, nella caccia di tali cose intorno a questo globo, esse o ci conducono in vuoti labirinti o ci lasciano sommersi a metà strada.

5. Continua.


La traduzione del romanzo di Herman Melville, di cui Succedeoggi sta pubblicando un ampio sunto, è di Alessandro Macchi. Le fotografie originali sono di Roberto Cavallini.

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