Daniela Matronola
Su “Quegli stupidi eroi di provincia”

Stazione Ponte Rabbione

Il nuovo libro di Riccardo Lestini è una raccolta di racconti che animano un unico luogo di provincia, inventato e simbolico: Ponte Rabbione

Quegli stupidi eroi di provincia, recente libro pubblicato da Riccardo Lestini con l’editore Les Flâneurs nella Collana di narrativa MontParnasse (172 pagine 172, 15 Euro), è a tutti gli effetti una raccolta di racconti, di cui però si dice nel risvolto di copertina che compone un “irriverente romanzo in episodi”.

Siamo già in un punto estremamente interessante, perlomeno su un piano squisitamente critico.

Si tratta di otto storie separate che però hanno almeno due punti di unione nelle coordinate del setting.

Da un lato l’epopea calcistica che attraversa quasi tutte le storie a partire dal 1986 a venire verso di noi oggi (c’è una maniacale attenzione al dato cronologico, al cosiddetto time o’ the clock, che tuttavia si spalanca ad ampie plaghe tutte narrative fino a punte altamente epico-mitologiche per dono di immaginazione). Dall’altro lato un dato topografico costante, l’invenzione di un luogo che non c’è ed è però a un tempo epitome e somma dei favolosi borghi umbri di provincia: un toponimo, Ponte Rabbione, che è tutto un programma, e ha nel nome il suo senso – è un ponte tra l’esistenza comune e ordinaria di provinciali comuni e l’epopea o la ribalta di prima linea cui chi vale avrebbe diritto, ed è un coacervo di rabbie che covano in quel vivere nascosti cui la sorte provinciale condanna questi eroi con tutto il condimento di espressioni popolaresche, quelle sì irriverenti, e piccole grandi sguaiataggini da buoni diavoli dediti “per noia abbandono e malinconia” (come cantava Che Sarà di Jimmy Fontana) alla proprio dispersione in modo più o meno consapevole (Bono Vox degli U2 qui chioserebbe, And you give yourself awaye tu ti dai via).

Qui si aprono veramente molte splendide strade che ora proviamo a mettere in fila e a seguire fino in fondo, dopo aver segnalato, per inciso, che nel risvolto della copertina di fondo è possibile seguire il QR Code per ascoltare la playlist che fa da colonna sonora al libro, divisa tra rock e cantautori.

La coordinata di luogo è interessante perché funziona esattamente come la Dublino di Joyce o la Trieste di Svevo: non è una quinta, non è un fondale, è un tessuto attivo che interagisce con personaggi e vicende fino a determinare i destini – anche o forse soprattutto quando a qualcuno di loro capita di lasciare la piccola patria di provincia per la grande città: inutile dire che Ponte Rabbione batte forte dentro l’anima di chi la lascia forse più che col cuore di chi vi resta.

Però il vero terreno di discussione qui è proprio la collocazione apparentemente incerta tra raccolta di racconti e romanzo in episodi. Nonostante il luogo accomuni in modo decisivo tutte e otto le storie del libro risulta in assoluto più calzante la definizione di raccolta di racconti; forzata invece, oltre che non necessaria, la “promozione” a romanzo in episodi.

Per qualche ragione è come se la forma-racconto debba vedersi riconosciuta una minore dignità letteraria, è come se l’autore, poiché narratore in scala minore, debba temere di vedersi riconosciuta una reputazione inferiore. Il dato curioso è che il secondo racconto di questa raccolta si intitola proprio REPUTAZIONE.

Riconosciamolo: il racconto è una forma non solo nobilissima di narrazione in prosa ma anche antichissima.

Generalmente quando si parla di racconto si pensa subito a Carver o alla magnifica Alice Munro e a tutta una tradizione del racconto che risale all’Ottocento, che ha i suoi Maestri (pionieri del Racconto Americano Contemporaneo) in Edgar Allan Poe e Sherwood Anderson ,per poi risalire a Henry James (ma persino all’ Edgar Lee Masters di Antologia di Spoon River – narratore in versi attraverso brevi epigrafi), senza però poter scordare i narratori russi, da Čechov a Go’gol, per poi muoversi in avanti verso Joyce e Hemingway o verso la O’Connor e David Foster Wallace … ma no, ma no, qui siamo da tutta un’altra parte.

Gli antecedenti ideali di questi racconti, che sono proprio racconti – anche quando sono strutturati, lunghi oltre la media e articolati, sono il Novellino (la raccolta di novelle popolari duecentesca di area toscoumbra) e Giovanni Boccaccio coi suoi savi popolareschi, Bertoldo Bertoldino e Cacasenno, e Andreuccio da Perugia il frescone in visita a Napoli, e da questa via, con una bella capriola, il Basile di Lo Cunto de li Cunti, di area culturale distinta ma ugualmente di umore popolaresco.

È proprio il dato popolaresco l’elemento fresco e letterario che connota questa raccolta e rafforza la sua qualità di valorosissime narrazioni brevi in cui ogni storia risulta degnissimamente conchiusa in sé stessa.

Il dato popolaresco informa il linguaggio di questi eroi di provincia e anche la loro “linea esistenziale”.

È persino di portata gergale, situa e colloca queste storie in un valore scalare solo in apparenza minuto.

Il dato che si allea al mood popolaresco e all’espressività irriverente e volgare, non è affatto di taglio meschino e ridotto, ma riesce ad aprire i personaggi e le loro vicende a un respiro epico che sfuma nel mito.

Basta far caso alla nominazione che si attesta su almeno due anzi tre livelli riconoscibili.

Da un lato un quartetto di amici decenni, calciatori in erba, non hanno nomi proprio ma sono direttamente identificati con gli eroi achei, Achille Aiace, Ulisse e Filottete. Questa loro traslazione omerica – simile a una operazione per cui ad esempio si può sintetizzare il valore di un personaggio chiamandolo col nome della star hollywoodiana cui somiglia – risolve la loro identificazione precisa e racchiude esattamente la loro vera sostanza umana. In più li proietta verso una mitizzazione olimpica che li solleva dalla (ipotetica) mediocrità provinciale restituendoli a una loro sfrenatezza e generosità epica.

Nel punto mediano di questo percorso, un piccolo campione naturale, Paolo Gallorini, diventa subito per tutti, nella sua veste di eroe dei campetti e campi di calcio di provincia – fino all’approdo alla Lazio e all’appoggio nella Fiorentina, il Grande Gallo. Subito la sua reputazione sfuma nel mito, nell‘epos.

E poi, dall’altro lato, sempre su questa linea, assistiamo a una rinominazione che è classica della provincia: appioppare a tutti dei soprannomi – scompaiono nomi e cognomi, sostituiti per antonomasia da: Cripto, Schizzo, lo Gnagna, Kunta Kinte, Eremo…

Ciò accade in un racconto esilarante però anche amaro in cui un sugo ai funghi per condire la pasta produce una strana euforia, molto chimica, forse simile alle bucce di banana bruciate a suo tempo da qualche studente buontempone sulla West Coast con conseguente scoperta dell’acido lisergico. E proprio a questo punto, significativamente, si incontrano due segnali: da un lato una scoperta sensazionale, Max Pezzali degli 883 è stato un genio; dall’altra si affaccia un personaggio inquietante di Mullholland Drive, il film di David Lync, che mostra il destino della ragazza provinciale col desiderio di diventare un’attrice a Hollywood – da una parte tutto splendido e rilucente se lei ce l’avesse fatta, dall’altra tutto cupo e orrendo se, come probabilmente è andata, tutto si fosse messo al peggio. Di tutto questo, la sintesi perfetta è nel creepy hobo, l’orribile barbone, nelle cui fattezze alterate pare si riesca a riconoscere il produttore che, nella versione positiva della storia della giovane attrice, l’aveva non solo ingaggiata in un film ma l’aveva, con sua moglie, quasi adottata. Non è poi un caso che nel film di Lynch ogni tanto si affaccino le ziette del paesello.

Dopotutto quel film è un sistema di sliding doors nel destino di una ragazza che dalla provincia prova a spiccare il salto verso la grande città, il grande cinema, la grande ribalta, come capita a qualcuno in questi racconti, salvo venire risospinto verso la propria più autentica dimensione provinciale.

Quella dimensione, come sintetizza l’omonimo racconto, è tutta inchiodata al tipico sistema provinciale della REPUTAZIONE, una definizione del proprio sé a cui ognuno resta inchiodato, al punto che, quasi per resa interiore e adesione finale, ognuno poi ne è non solo prigioniero ma totalmente presidiato nella mentalità e nelle azioni, dunque nel rispondere alle convocazioni del destino.

Dunque, come testimonia l’indiavolato racconto finale (la summa quasi di tutto ciò che il libro intanto ha sparso intorno), tornando al calcio come metafora di vita, è vero che si partecipa a un campionato del mondo ma quel mondo per quanto faccia sta tutto racchiuso nel piazzale della stazione di Ponte Rabbione.


La fotografia accanto al titolo è di Deborah Raimo.

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