Giuliano Compagno
Il grande attore scomparso

Gli spaghetti di Donald

Ricordo di Donald Sutherland e della sua straordinaria passione per l'illusione cinematografica, da Altman a Fellini. E di un piatto di spaghetti davvero speciale...

Succede che proprio in film minori si ritrovino delle scene indimenticabili. In una di esse Laura e John Baxter stanno flirtando come una coppia di ragazzi in un appartamento veneziano ma la regia non indugia sui soliti attimi ripetitivi, anzi si sofferma con delicatezza sui piccoli gesti che i due compiono dopo l’amore: specchiarsi, lavarsi, truccarsi, rasarsi, rivestirsi… Il film era Don’t look down, una produzione anglo-italiana che ammiccava al genere gotico; i coniugi, svestiti i ruoli, si chiamavano Julie Christie e Donald Sutherland. Era quasi cinquant’anni fa. Al termine della vita, questo immenso attore del New Brunswick, nato a pochi passi dal Saint John (fiume che vanta il ponte coperto più lungo del mondo), collezionerà oltre centocinquanta film e sarà diretto da Aldrich, Pakula, Altman, Schlesinger, Bertolucci, Fellini, Chabrol, Malle, Herzog, Stone, Eastwood e Tornatore… Il Gotha del cinema mondiale.

All’atto di ricevere, nel 2018, il Premio Oscar alla carriera, era bello che egli raccontasse di un momento magico vissuto pochi mesi prima, mentre era seduto a un balcone di un albergo romano e davanti a sé aveva Via del Corso, tra Piazza Venezia e Piazza del Popolo… «C’era un tavolino tra Francine e me, due piatti di spaghetti ai frutti di mare e una bottiglia d’acqua. È squillato il mio telefono americano e dall’altro capo del filo era John Bailey, che conosco da almeno 35 anni. Ho detto: Hallo John! E lui: Hallo Donald, tu sai, sono diventato Presidente dell’Academy… Oh! gli ho detto: Congratulations John! Allora lui mi ha interrotto… No, sono io che devo congratularmi con te… Allora le ho passato Francine e le ha spiegato tutto. Lei ha abbassato e mi ha detto: Dovresti dimagrire. Io ho guardato lei, ho guardato gli spaghetti e ho detto: Cominciamo domani!» Era la leggerezza di un ottuagenario che vedeva davanti a sé, oltre agli onori, il filo sempre più corto di una vita dolce. Era la raffinatezza di un grandissimo attore che aveva saputo vestire i ruoli più diversi mutando impercettibilmente gesti ed espressioni. Vi era qualcosa di profondamente canadese nello stile di Sutherland; persino nell’onorarsi egli conteneva una giusta fierezza, una visione più reale, di sé e della sua esistenza.

Eppure sui set egli sapeva difendere le sue convinzioni. Lo fece in Mash con Robert Altman, lo fece in Novecento con Bernardo Bertolucci, dando luogo a schermaglie senza fine. Eppure non lesinava giudizi nettissimi, su Federico Fellini ad esempio: «Come disse Sir Richard Attenborough, Fellini è in cima

all’Everest, tutti gli altri sono a valle. Federico non guardava mai in moviola, perché la dimensione bidimensionale interferiva con la sua immaginazione tridimensionale. Era magico, magico! E mi manca così tanto… perché ero così intimamente connesso con lui. Mia moglie mi odia quando lo dico, ma la nostra era quasi una relazione sessuale per il genere d’intensità che sprigionava.»

D’ora in poi, del miglior attore canadese di ogni tempo, rimarrà oltre a pellicole indimenticabili, il suo profondo sguardo sugli altri. E l’immagine di lui che innalza la bandiera olimpica in apertura dei giochi di Vancouver.


Testo ripreso dal volume Canada. Storie, visione e sfide di un laboratorio del futuro, di Paolo Quattrocchi e Giuliano Compagno, Mimesis 2022.

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