Ancora su "La rivolta degli oggetti"
L’anima degli oggetti
Il ritorno de La Gaia Scienza con uno dei suoi spettacoli di culto di quarant'anni fa non ha un sapore nostalgico ma indica un trapasso: il segno indelebile di un ricambio. Evocato (anche) dalla trasformazione degli oggetti
Se ha ragione Maurizio Calvesi quando, recensendo una retrospettiva di Pino Pascali, nel 1970, dice che «Non si fa arte solo per una finalità estetica ma, soprattutto, per accelerare il ricambio dei processi mentali, per alimentare una nuova logica che non sappiamo quale possa essere ma che, intanto, mentre è in gestazione sembra ghiotta di mito», il ritorno de La Gaia Scienza, gruppo di avanguardia teatrale operante negli anni ’70, fa pensare a una dichiarazione di appartenenza. E non solo perché Alessandra Vanzi, Giorgio Barberio Corsetti e Marco Solari smisero, come gruppo, a metà degli anni ’80 quando, cioè, la finalità esclusivamente estetica, di “pura provocazione, o filosofia”, divenne prevalente, ma anche per la passione e la curiosità che il gruppo ha sempre dimostrato per il rinnovamento e per le arti. A ospitare il rientro, il palcoscenico del Teatro India. L’ occasione, il Festival Roma Europa. Lo spettacolo, La rivolta degli oggetti. Tratto da un testo di Majakovskij, del 1913, è una rivisitazione di quello del 1976, andato in scena al Beat ’72.
Completamente rifatto l’allestimento. Lontana dalla retorica e dalle celebrazioni, la ripresa si presenta come precisa scelta artistica, modalità per ripensare gli strumenti usati, le forme del lavoro, così come della propria esistenza.
Rivedere ciò che è stato, quindi. Una scelta, quella del ritorno, che non può non far pensare ai classici. Nessuno di noi è lo stesso davanti allo stesso fenomeno. Non lo è a distanza di minuti, figuriamoci di anni. Sta a noi, cercare nuove verità. Lo sosteneva Proust nel suo celebre romanzo, quando diceva: «…c’è meno forza in un’innovazione artificiosa che in una ripetizione destinata a suggerire una verità nuova».
C’è la ripresa dello spazio scenico.
L’operazione, però, si rivelava complicata. Non solo perché il binomio arte e politica è diventato scontato e quindi difficile da maneggiare, ma per un problema ulteriore, riassumibile in una domanda: come restituire un lavoro segnato da un’epoca e che quell’epoca, in qualche modo, ha segnato?
Se, da una parte, gli autori hanno lasciato spazio agli oggetti, alla loro spigolosità, al loro essere presenti al mondo, dall’altra hanno aperto al passato, ai ricordi, alle modalità che legano le loro vite e il loro lavoro a quelli di Majakovskij. È come se il “ricambio dei processi mentali”, la “nuova logica” di cui parla Calvesi avvenisse proprio a partire dal binomio oggetti/esperienza. E così, se la rivisitazione è un gesto esplicitamente politico, sulla scena non troviamo più loro, gli autori, ma tre giovani performer: Dario Caccuri, Carolina Ellero, Antonio Santalena. Bisogna lasciar andare quello che si sa; si deve passare la staffetta.
Il percorso emotivo è lineare, risolto, come dopo un percorso di analisi. Fazzoletti rossi, una bottiglia d’acqua, una sedia, delle scale, la carta argentata da cucina, in scena. Un vestito bianco addosso alla ragazza; i due giovani indossano pantaloni beige e camicia bianca. Dopo un po’, tutti e tre in cappotto blu. Ci sono oggetti d’abbigliamento, nella storia della cultura, che funzionano da simbolo, qualche volta da ricordo. All’esperienza data, i tre attori aggiungono la loro.
Gli oggetti subiscono quella che si chiama “una traslazione di senso”. Chi non ha mai visto sventolare bandiere, fazzoletti rossi? L’immagine fa talmente parte del nostro pensare, da passare praticamente inosservata: non emoziona più. È diventata “spettacolo” (direbbe Debord). Più difficile, invece, vedere fazzoletti e bandiere trasformati in lacrime: è ciò che autori e attori hanno provato a fare. Il rosso (straccio o bandiera che sia) trattenuto con un dito, sotto l’occhio, per un solo istante. Un rotolo di carta d’alluminio, di quelli da cucina, liberato come un tappeto, forma una passatoia: inizia lo spettacolo. Se è uno specchio, i tre protagonisti, inevitabilmente ci inciamperanno sopra, fino a distruggerlo.
E ancora: chi l’ha detto che l’acqua contenuta in una bottiglia servirà solo a dissetare? Se male usata diventerà strumento di tortura. L’acqua è sudore e il sudore non è altro che acqua. Chi ha mai dimenticato il mare di Pascali?
Un violino senza corde. Se c’è chi pensa che, privato del suo valore d’uso abbia perso la sua funzione, si sbaglia. Potrà essere usato come segnatempo, la base per un canto.
Così le scale appoggiate al muro: usate per dei “proclami politici”, così come viene fatto, sembrano adempiere a sufficienza a una propria specifica funzione. A che serve, d’altra parte, salire? E per andare dove?
Gli oggetti di scena che, come in un gioco, diventano altro da quello che sono.
Ma non ha insegnato questo l’avanguardia?
C’è la collaborazione con Domenico Bianchi e Gianni Dessì. Ci sono i testi scritti dagli autori. È Vanzi ad aprire, e le parole sembrano spingere i giovani attori sul palcoscenico. Nell’iconografia, la sofferenza prende una forma triangolare, classica: la Pietà. Come in Steve Paxton, il dolore si attenua nella danza, si assottiglia. Nell’andare e venire che i tre fanno, non sai mai chi sia il Cristo e chi colui che conforta. Così che non sai mai chi è bisognoso di aiuto e chi è che sta aiutando. C’è un legame fra i tre: uno schiaffo al primo passerà, proprio come un legame chimico, agli altri due: così i suoni.
C’è “Horses”, di Patti Smith. È il punto in cui i tre indossano un binomio: il cappottone blu e il revolver. Corrono. Le stelle rosse possono ferire, se usate per la punta. Di stelle rosse ci si può strozzare. C’è il testo di Majakovskij. Ci rimprovera, noi del pubblico, l’autore russo e, forse perché scriveva agli inizi del secolo (anche se di un altro) ha la potenza di chi vede le cose prima che accadano.
Lo spettacolo funziona. Così come funziona l’amicizia dei tre – due ragazzi e una ragazza – simile a quella raccontata, anni dopo, in The dreamers (2003) da Bertolucci, che viene da Roché passato per Truffaut: è Jules e Jim (1962).
E ancora: mentre sulla “torretta per i comizi” i giovani Carolina, Dario e Antonio si alternano per gridarci a vicenda la loro rabbia, che poi è quella rivoluzionaria, come possiamo non pensare a Insulti al pubblico (Peter Handke, 1966)? Ma forse no. Perché il vero equilibrio sta nel gioco, come sembrano suggerire Solari («Poi una parola cercò di entrare nell’altra, ma quell’altra si sentì persa, pensò: “Ecco, che ne sarà di me? Rimarrò la stessa parola di sempre? Oddio, che ne sarà di me?”») e Barberio Corsetti, che chiudono. E d’altronde, non è sempre stata una caratteristica dell’avanguardia quella di smontare e rimontare i pezzi dando loro un significato diverso? Non lo faceva anche il futurismo, di pretendere un mare con le giuste onde? Non è tipica dell’avanguardia la capacità di annullare la sofferenza, rendendola un comune oggetto di uso quotidiano e, come tale, “da tutti praticabile”? Un oggetto, come tanti, di pratica e uso comuni, una merce: appunto.