Periscopio (globale)
Kundera e la Storia
Milan Kundera compie novant'anni: l'occasione giusta per riflettere sul romanzo. E capire, rileggendo la sua opera, che la narrativa "pura" non esiste: si racconta sempre il tempo lungo (e largo) della Storia
In un passo del suo più recente libro, intitolato Le galanti ma non a caso sottotitolato Quasi un’autobiografia, Filippo Tuena confessa una forte disaffezione nei confronti della narrativa pura, delle storie costruite e raccontate avendo l’autore quale unica fonte d’ispirazione la propria fantasia, e quindi non ancorate a eventi realmente accaduti. Tutto il percorso di Tuena, dal libro sulla famiglia dei Reinach-Camondo a quello sulla spedizione di Robert F. Scott al Polo Sud ai Memoriali sul caso Schumann, è in qualche modo illustrazione di questo disagio nei confronti dell’invenzione indiscriminata, e va detto che s’iscrive in una tendenza molto diffusa tra gli scrittori contemporanei che spesso sfocia, con risultati alterni, nella cosiddetta “autofiction”.
Pur condividendo in gran parte l’assunto, si potrebbe allargare il discorso e chiedersi, tuttavia, se la grande narrativa sia mai stata “pura” nel senso inteso (e spesso deprecato) da Tuena e molti altri, o se invece non abbia dovuto fare quasi sempre i conti con la realtà storica, sociologica e antropologica in cui i protagonisti (pur inventati) sono immersi. Fin troppo facile pensare a Guerra e pace, con le sue lunghe divagazioni sulla campagna di Russia, che però divagazioni non sono, anzi diventano assolutamente centrali nell’economia del romanzo e nella psicologia dei personaggi; ma non mancano esempi più recenti, come un testo che ha reso immediatamente palpabile al lettore occidentale la vita e le contraddizioni politico-ideologiche nei paesi dell’Europa dell’Est, quando il nostro continente – non tanto tempo fa – era ancora diviso in compartimenti stagni. Mi riferisco al romanzo più intrigante e significativo di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere.
Interessante è rilevare come proprio Kundera, peraltro grande ammiratore di Tolstoj, sia stato fra i primi a sostenere che il romanzo doveva riabilitare i principi della narrativa seicentesca e settecentesca (da Cervantes e Rabelais a Diderot, per capirci, quelli che per lui sono gli inventori dello humour) per superare le barriere poste dall’estetica romantica e ampliare nuovamente le proprie prospettive, assorbendo e includendo l’analisi filosofica e politica. Si deve muovere cioè, come scrive nei Testamenti traditi, verso «una ridefinizione e un ampliamento del concetto stesso di romanzo; il rifiuto della riduzione che gli è stata imposta dall’estetica ottocentesca; l’assunzione, come base del romanzo, di tutta la sua esperienza storica» (il corsivo è suo). E si deve muovere dunque verso la compresenza e contemporaneità di tecniche narrative ed estetiche diverse, che in alcuni casi porteranno a innovazioni formali e in altri no, ma senza che questo debba automaticamente farci distribuire patenti di modernità o arretratezza. Non è questa, in realtà, la discriminante; e non si tratta neppure di riesumare pedissequamente tradizioni lontane nel tempo, ma di dare al romanzo la massima estensione possibile, senza irrigidimenti né preclusioni.
A questo principio Kundera si è mantenuto fedele tanto nella prima produzione narrativa, scritta in ceco, quanto nella seconda, allorché, trasferitosi a Parigi, dai primi anni Novanta ha cominciato a redigere i suoi libri in francese, con la conseguenza che i cechi hanno potuto leggerne le ultime opere solo una volta tradotte, spesso con anni di ritardo. Ciò ha contribuito ad allontanarlo non poco dagli ambienti intellettuali del suo paese e a trasformarlo gradualmente quasi in un estraneo agli occhi dei suoi primi lettori, al punto che anni più tardi in patria non gli verrà nemmeno risparmiata l’accusa, basata su voci mai del tutto dimostrate, di collaborazionismo con l’esecrato regime comunista.
Dopo Amori ridicoli, racconti pubblicati a partire dal 1963 ma riuniti in volume solo nel 1970, Kundera si fa conoscere nel 1967 con un primo romanzo, Lo scherzo, in cui si fa beffe dell’assurdità di molti aspetti della vita sotto il giogo comunista e del moralismo a buon mercato che la dittatura tende a promuovere. Con Il valzer degli addii (1972), ambientato in una stazione termale ceca all’inizio degli anni Settanta, Kundera prefigura già la scelta dell’esilio, a cui uno dei protagonisti, Jakub, un ex detenuto per motivi politici, dovrà piegarsi. Nel narrare la storia di Jaromil, il quale si dedica pervicacemente alla poesia in un mondo, la Cecoslovacchia degli anni intorno alla Seconda guerra mondiale, che alla poesia sembra del tutto refrattario, La vita è altrove (1973) rappresenta un’analisi feroce e grottesca dello zelo rivoluzionario, mentre Il libro del riso e dell’oblio (1978) denuncia la facilità con cui tendiamo a rimuovere gli episodi spiacevoli soprattutto in campo storico-politico, ma anche nella vita quotidiana. L’immortalità, del 1990, chiude la trilogia inaugurata con il romanzo precedente e continuata nel 1984 con L’insostenibile leggerezza dell’essere, libro di enorme successo in tutto il mondo. In tutti questi libri il piacere del testo, che Kundera suscita con maestria, equivale al piacere di seguire le vicende private ma mai banali dei suoi personaggi nel contesto appunto della Storia con la maiuscola, di quell’insensato succedersi di macro-eventi che finisce per ripercuotersi su tutte le minuscole esperienze degli individui, o per dirla con lo stesso Kundera, “questa forza ostile e disumana la quale, pur non essendo invitata né desiderata, invade dall’esterno le nostre vite e le distrugge”. L’ideale della leggerezza del vivere, contrapposto alla condanna dell’eterno ritorno nietzschiano, permette così di sfuggire all’ineluttabile, d’insinuare uno spazio di libertà anche fra le maglie del più oppressivo dei totalitarismi, nel labirinto kafkiano dell’organizzazione sociale che stritola l’individuo. Centrale diventa allora il concetto di memoria storica, che può essere declinata, come fa Kundera, usando le armi dell’ironia e del sarcasmo piuttosto che affidandosi al pathos (su cui grava sempre un’ombra di kitsch), ma senza la quale in ogni caso anche il presente e il futuro si annullano in un magma indistinto.
È nel “periodo francese” che si fa più marcato il passaggio a un nuovo sottogenere, quello del romanzo-saggio, appunto, del resto prefigurato fin dagli anni Ottanta nelle ultime due prove in ceco, dove la riflessione filosofico-politica è già molto presente. Da ricordare almeno La lentezza (1995), ricca e saporita meditazione sull’ossessione per la velocità che inquina la vita moderna, L’identità (1997), incentrato sulla valutazione e sull’interpretazione dell’identità delle persone che ci sono vicine e di noi stessi, e L’ignoranza (2001), in cui Kundera ripercorre i sentimenti provati al momento del ritorno in patria dopo un’assenza più che ventennale e che rappresenta una variazione sul tema dell’Entfremdung, l’estraneità di quanto ci è stato familiare, così potente da svuotare di senso l’intera esistenza. Piuttosto irrisolto mi è parso invece il divertissement intitolato La festa dell’insignificanza, del 2013, che (per ora) ne chiude la produzione narrativa.
Ma di Kundera vanno anche menzionati almeno due saggi di grande importanza, L’arte del romanzo, del 1986, e il già citato I testamenti traditi, del 1992, entrambi scritti in francese. Quest’ultimo mi è particolarmente caro già dal titolo, un’allusione al testamento tradito per eccellenza nella storia della letteratura, quello di Kafka, e poi perché contiene un lungo e brillante intervento su Kafka e la “kafkologia”, con cui Kundera auspica un salto di qualità della critica kafkiana volto a sottrarre Kafka e la sua opera alla tentazione dell’agiografia. In un’altra sezione del libro Kundera dà preziose indicazioni a chi voglia cimentarsi, come mi è accaduto per il racconto del Digiunatore, con la prosa kafkiana, di fronte alla quale bisogna resistere strenuamente alla tentazione di abbellire e normalizzare il testo.
In linea generale, tutto l’approccio di Kundera alla saggistica è originale: egli sostiene infatti che il saggio letterario non sia un lavoro collettivo, come avviene per le scienze, dove i ricercatori si confrontano, discutono e sperimentano prima di affidare alla carta le loro conclusioni, e lo fanno poi riproducendo schemi prefissati e stabiliti, ma un atto di creazione del tutto solitario, proprio come gli altri generi letterari, e che quindi il saggio, quando non si riduca a pura informazione sull’attualità letteraria, debba ispirarsi, anche nella sua forma, all’opera o alle opere di cui tratta. Il saggio critico, insomma, come meditazione personale che accompagni il romanzo (e la poesia) in quella foresta intricata e a volte spaventosa che è l’ignoto a cui, scrivendo, approdiamo.
Milan Kundera compie proprio oggi novant’anni. Sarebbe auspicabile che il rinnovato comitato del premio Nobel per la letteratura, nel conferire uno dei due premi – quest’anno si recupererà infatti anche il premio non assegnato l’anno scorso – si ricordi di questo grande interprete della letteratura dell’Europa orientale e colmi una delle sue tante lacune. Fino al momento presente i cechi hanno visto onorare solo il poeta Jaroslav Seifert, laureato nell’ormai lontano 1984 dopo essere stato proposto per il Nobel già nel 1968, anno in cui però non lo ottenne perché in piena primavera di Praga prevalsero ragioni di Realpolitik. Oggi che la Repubblica ceca fa parte dell’Unione europea e certe barriere ideologiche sono cadute, non sembrerebbe fuori luogo premiare il più europeo e cosmopolita dei suoi scrittori e richiamare di nuovo l’attenzione su una letteratura che ha avuto rappresentanti di tutto rispetto, da Jan Neruda a Jaroslav Hašek, da Bohumil Hrabal a Josef Škvorecký.
Nomi accanto ai quali quello di Kundera di certo non sfigura.