A proposito di “N.B. Un teppista di successo”
Napoleone teppista
Riccardo Ferrazzi affronta a viso aperto il mito inossidabile di Napoleone Bonaparte e, senza falsi pudori, cerca di riportarlo sulla terra in un libro che non è né romanzo né saggio storico
Che il mito abbia esercitato e continui a esercitare un fascino particolare su tutti noi è fuor di dubbio. Lo sa bene Riccardo Ferrazzi che affronta, con l’intento dichiarato di ridimensionarlo, uno dei miti più fulgidi dell’età moderna, quello di Napoleone, che, dopo aver affascinato artisti e scrittori (David; Canova; Appiani e Manzoni etc.), continua a essere oggetto di culto e di venerazione da parte di quasi tutti i Francesi, in quanto vellica il loro orgoglio e la loro mania di grandezza. Non c’è famiglia francese di estrazione aristocratica, borghese o proletaria – sempre che tali differenze abbiano ancora un senso – che non abbia all’interno della propria casa un busto di Napoleone.
L’intento demistificatorio di Ferrazzi appare evidente già dal titolo N.B. Un teppista di successo (Arkadia ed. 16 euro), in cui Buonaparte fin dalla fanciullezza viene paragonato a un teppista di strada; non a caso l’incipit lo vede, antesignano quasi di uno degli intrepidi Ragazzi della via Pal, scarmigliato alla testa di una banda di ragazzini, scalzi e arruffati, armati di fionde e di ciottoli levigati da usare come proiettili sui cavalli della guarnigione francese intenti ad abbeverarsi. Il piano, comunque, fallisce e per l’insubordinazione di qualcuno del gruppo che non vuole sottostare agli ordini del piccolo capobanda e per l’intervento dell’avvocato Buonaparte che, prendendolo per la collottola, riesce ad allontanare il figlio in procinto di scaricare sul suo avversario una gragnuola di pugni. Da questo episodio, descritto dal Ferrazzi con tanta efficacia da farci avvertire la polvere in cui si rotolano i due ragazzi e il fango che ne inzacchera i vestiti, emergono non tanto la propensione a delinquere e la frequentazione della teppa quanto la sua iniziale avversione verso la Francia e la sua tendenza a menare le mani. Rissoso, quindi, audace e animoso ma non credo che lo si possa definire un teppista.
N.B. Un teppista di successo non è un saggio storico né una biografia, come lo stesso autore afferma nella nota conclusiva, non meraviglia quindi che manchi una ricerca scrupolosa di documenti e di testimonianze, la stessa corrispondenza epistolare tra Napoleone e A. Saliceti, la cui amicizia durò tutta la vita, è per lo più frutto di immaginazione e di congetture e obbedisce più a criteri specificamente letterari che storici.
Il libro in questione si muove tra la Corsica e la Francia e abbraccia un lasso di tempo che va dal 1778 al 1796, quando Napoleone assume il comando dell’Armata d’Italia. Sono anni densi di avvenimenti: l’indipendentismo della Corsica; la presa della Bastiglia; il Direttorio; il Terrore, anteriori comunque all’epopea di Napoleone, alle sue fortunate campagne militari e alla creazione dell’Impero. Riccardo Ferrazzi si sofferma, infatti, sulla giovinezza movimentata del giovane ufficiale corso; sulla sua formazione politica e militare; sulla sua smodata ambizione, sui suoi rapporti con la famiglia che si caricò interamente sulle spalle, dopo la morte del padre, e da cui non ebbe un appoggio incondizionato. Non mancano neppure riferimenti alle sue avventure galanti, alla frequentazione dei salotti parigini, dove capì che la strada verso il successo e il potere passava anche attraverso le alcove e le camere da letto di alcune signore potenti e spregiudicate, come T. Cabarrus e R. J. Beauharnais.
Ferrazzi nell’ultimo capitolo fa suo l’interrogativo del Manzoni: “Fu vera gloria?” e laddove lo scrittore lombardo si esime dal pronunciare un giudizio (“Ai posteri l’ardua sentenza”) perché a lui interessava l’esilio di Napoleone e ancor più la sua morte, il momento in cui ogni uomo fa i conti con se stesso e con Dio, Ferrazzi un giudizio lo esprime ed è fortemente negativo. Lo accusa di aver mentito e non solo a fini propagandistici, di essere un arrampicatore sociale, di mancare di magnanimità e misericordia, di praticare il cinismo e la violenza e di comportarsi alla stregua di un avventuriero, non diversamente da Cagliostro o Casanova. Premesso che le strade della Storia sono state sempre lastricate di sangue, anche in periodi di apparente o sedicente democrazia, Machiavelli ci ha insegnato che il potere si gestisce simulando e dissimulando, con una buona dose di cinismo e utilizzando a seconda dei casi le leggi o la violenza. E anche Manzoni contraddicendo il suo stesso proposito gli riconosce il merito di aver posto fine al Terrore e di aver ricomposto le fratture con il passato proponendosi come tramite verso il futuro e l’affermazione della classe borghese.
Al di là di eventuali divergenze di opinioni, a me preme rilevare in Ferrazzi il passo sicuro del narratore, la sua capacità di dipingere con poche pennellate situazioni, fatti e di approfondire dinamiche psicologiche anche complesse. Il tratto è preciso, il ritmo veloce e incalzante, come nella commovente scena in cui il piccolo Eugenio Beauharnais, ligio al dovere, obbedendo a un preciso ordine di Napoleone, si reca da lui per consegnargli la spada appartenuta al padre morto in guerra; dinanzi allo spietato generale Eugenio non trema, non piange, né implora ma mantiene integra la sua dignità e la pagina brilla delle lacrime non versate.
Il linguaggio è altrettanto felice; concreto e icastico senza svolazzi di alcun genere risente del realismo manzoniano di cui condivide la milanesità, valga a mo’ di esempio l’espressione mutuata direttamente da I Promessi Sposi di “vaso di coccio tra i vasi di ferro” riferita non a Don Abbondio ma alla sventurata Genova stretta tra la Francia e l’Austria, e il pensiero non può non andare al crollo del ponte Morandi.
Nel complesso una lettura piacevole, originale e intrigante.