A proposito di “Cieli celesti”
La poesia ancestrale
I versi di Claudio Damiani segnano il ritorno all’ancestrale (inteso come mito del buon selvaggio): un percorso tramite il quale è possibile recuperare la risonanza del primo vagito dell’universo
«Beppe Salvia è morto a Roma, a trent’anni, gettandosi dalla finestra di casa sua sabato 6 aprile, a via del Fontanile Arenato. Ho sempre avuto l’impressione che abitasse in quella via perché il nome gli piaceva. Un nome liricamente simbolico». È il drammatico inizio dell’articolo Morte d’un giovane poeta di Marco Lodoli, pubblicato il 18 aprile del 1985 su Paese Sera. Salvia apparteneva alla scuola romana degli anni Settanta-Ottanta (da Bellezza, Zeichen, Magrelli in giù), che forma un altro importante autore, la cui ultima silloge rimanda nel titolo proprio a una lirica del poeta di origine potentina: Cieli celesti (Fazi, 163 pagine, 18 euro) di Claudio Damiani.
Gusto per l’iterazione, tendenza al dialogismo, contatti con l’elegia latina e riflessioni secondo gli schemi della filosofia medievale mediata dalla ricerca scientifica: questi i tratti più evidenti di un testo che sborda leggermente dall’idea di lirica pura per entrare nel dominio dell’insegnamento zen, una maniera con cui prendere per i capelli la complessità del cosmo e sentirsi così particella presente alla robustezza dell’Uno (con echi spinoziani), calata nelle infinite differenze e declinazioni di un corpo che ha per membra la «comunità» di uomini ed essere viventi: «Riverso sul lettino in terrazzo/ guardo il cielo azzurro,/ azzurro di un azzurro fitto,/ pieno, come più mani di azzurro./ Come siete lontani stelle e pianeti/ dell’universo, quando potremo mai incontrarci,/ come, creature vive e intelligenti, uomini/ come noi, sparsi come siamo tutti/ in uno spazio tanto grande?/ Così adesso restiamo noi qui, pensando di essere soli/ perché anche il tempo è tanto lungo, come lo spazio./ Vi pensiamo però, esseri cari, e ci sarà un tempo/ in cui ci incontreremo».
Cieli celesti è un poema per intermezzi — precisamente un poema lirico — che ricorda gli infrasuoni e gli interrogativi di Dottrina dell’estremo principiante, attraverso cioè quella saggezza, frutto dell’esperienza, che si dipana però con vivacità e stupore giovanile, quasi francescano. Damiani, in effetti, si inserisce nella più genuina tradizione poetica italiana che, da Petrarca a Luzi (e prima di loro, appunto, Francesco d’Assisi), cerca un linguaggio distillato e universale, vicino all’interiezione, capace di rimescolarsi «nei nostri sogni/ dietro tante stelle». Questo era, d’altronde, l’obiettivo della rivista Braci (Damiani vi partecipò sin dagli inizi degli anni Ottanta), il cui minimo comune divisore riguardava la produzione di una lingua casta, semplice. Il ritorno all’ancestrale, inteso come mito del buon selvaggio e condiviso da alcuni richiami al grande pittore naïf Antonio Ligabue, significa in tal senso recuperare la risonanza del primo vagito dell’universo: «Ascoltare il rumore di fondo/ del big bang dell’universo/ e ascoltare tutte le voci/ tutti i suoni di tutti gli esseri/ di tutti i tempi come uno sfrigolio/ come un ronzio concitato e sommesso,/ e anche tutte le immagini/ di tutto quello che è stato/ percepirle come sovrapposte/ fino a coincidere con lo sfarfallio/ debolissimo, come una vibrazione/ piccolissima che vedo ora nel cielo».
Un’ispirazione senza dubbio presocratica — capire il senso della physis e il suo rapporto con l’arché — si lega a una particolare venatura della scuola romana che, con Damiani, prende decisamente una direzione opposta rispetto a quella iniziata da Magrelli. Se in quest’ultimo il monito «poesia è libertà», ossia il rapporto soggetto-oggetto, si presenta come un reciproco fronteggiamento dell’estraneità (secondo Giorgio Linguaglossa, il magrellismo rappresenterebbe addirittura un fait social, e precisamente, «l’impossibilità per il soggetto di comprendere il reale, e quindi uno stallo culturale e storico, prima ancora che estetico»), in Damiani vi è una continua rammemorazione dell’eden, della possibilità di riunirsi e rivedersi in un compimento, con ricaduta, si è detto, nell’elegia e nel dramma pastorale. In particolare il lago Fraturno, la Bandusia, il monte Soratte sono i luoghi oraziani par execellence. Ma c’è anche Teocrito, il Virgilio delle Bucoliche e delle Georgiche, filtrati con un linguaggio talora volutamente antielegiaco («— Rondini, ma dov’è che siete?/ È l’8 aprile e ancora non vi vedo./ Ma che è successo?/ — Ciao, siamo ancora quasi tutte in Spagna/ e molte ancora non hanno passato Gibilterra»). L’elegia e l’antielegia sembrano, dunque, i corni di un dilemma che l’ambiguità concettuale del poeta non consente facilmente di risolvere.
Il ricordo dell’eden, quella patria perduta che storicamente potrebbe essere ravvisabile nella «fauna di Ediacara» e in «un diplodoco del Giurassico», invita alla letizia, alla bontà e al candore di un “io che brucia” di desiderio. La “conoscenza per ardore” luziana si esplicita nel cercare di comprendere le connessioni degli spazi siderali. Il buon selvaggio va, allora, oltre il biologismo per assumere la forma della creatura «schiava di Dio», secondo una nota espressione di Simone Weil. Insomma, quello che Damiani propone è uno stile di vita. Sta a noi decidere di assecondarlo.