Fa male lo sport
Sulla montagna sacra
Alla vigilia del centesimo Giro d’Italia, al via domani, memorie della mitica tappa del giugno 1953 sullo Stelvio. Quando imprevedibilmente Coppi l’Airone strappò la vittoria della corsa e la maglia rosa allo svizzero Hugo Koblet. Fu il suo quinto e ultimo trionfo. Un pezzo di storia del ciclismo e di un paese…
Giro d’Italia, edizione numero 100. Non poteva mancare uno dei “santuari” della corsa ciclistica: lo Stelvio, il passo più alto, 2758 metri, la Cima Coppi, un serpentone di tornanti, sono 48, che hanno fatto la storia della manifestazione. Come altri luoghi “sacri”: il Pordoi, le Tre Cime di Lavaredo, il Gavia, il Colle dell’Agnello, il Bondone, il Sella. E più di recente, il Mortirolo, un montarozzo brutto e sconosciuto fino a quando Marco Pantani non cominciò a scrivere il suo esaltante e tragico romanzo. Questo Giro centenario (prima edizione 1909, vinta da Luigi Ganna che dopo 90 ore di corsa massacrante disse: «La mia impressione? Mi fa tanto male il culo») va sullo Stelvio martedì 23 maggio, dopo aver scalato in parte anche il Mortirolo (salita che sarà dedicata al povero Michele Scarponi, investito e ucciso qualche settimana fa mentre si allenava in vista della corsa).
È il 1953 quando Vincenzo Torriani, il “disegnatore” del Giro, decide di mettere nella corsa quel passo così alto. Quella strada, un tempo bianca di ghiaia e di neve, venne tracciata dall’ingegnere Carlo Donegani, bresciano e Cavaliere dell’Impero austriaco. Francesco I d’Austria voleva quell’itinerario per collegare Vienna, l’Alto Adige e la Lombardia. Nel 1825 il taglio del nastro e i primi cavalli, sfiniti dalla fatica, cominciarono a transitare su quelle rampe. Torriani rischia grosso con quella pensata. Ma, come al solito, lui ama l’azzardo, gioca in maniera spregiudicata. «Nessuno l’aveva messo in conto questo passo alto quasi 3000 metri, al confine con la vicina Svizzera. Una montagna alta fino all’impossibile… Con quella sua carrozzabile che da Prato allo Stelvio, in provincia di Bolzano, si inerpica verso l’alto lungo la Valle di Trafoi quasi fosse una scultura lunga 25 chilometri. Non uno di meno. Lo fa, per giunta, senza sosta, con pendenze costanti che si attestano tra l’8 e il 9% e tornanti che sembrano di essere sull’ottovolante… Senza contare che poi, dalla cima del passo, gli stessi dovranno avere il fegato di scendere dall’altra parte, verso la Valtellina, verso Bormio. Viene il mal di testa solo a pensarci. Altri 22 chilometri di tornanti e passione…».
Giacomo Pellizzari, che è scrittore e giornalista sportivo appassionato di biciclette, ha scritto alla vigilia di questo Giro un bel libro (Storia e geografia del Giro d’Italia, Utet, pagine 235, 15 euro) nel quale, a proposito dello Stelvio, annota le righe riportate poco sopra. Poi si chiede, tornando al 1953 e introducendo il discorso sulla “montagna sacra” e sull’idea-Stelvio di Torriani: «Come diavolo faranno a passare di qui i mezzi della pubblicità? Fallo salire tu il furgone della carne in scatola Simmenthal per questi 48 tornanti, con quel suo enorme barattolo, da cui fuoriesce addirittura una grossa mucca di plastica che pigia forsennata sulla motrice. Brucerà la frizione come minimo… E vogliamo parlare dei dentifrici? La Binaca sfoggia lunghe auto a forma di tubetto, la Durban’s – “il dentifricio del dentista” – ha uno spazzolino di 3 metri per 2 sulla capote, e la Chlorodont? Due tubetti, a mo’ di razzi capaci di imprimere doppia velocità al veicolo… Tutti questi mezzi stravaganti come faranno a salire sul passo dello Stelvio…?».
La modernizzazione del paese è stata abbozzata. Carosello è ancora lontano, la tv è nata da poco, la programmazione regolare comincerà a settembre, qualche mese più tardi di quel giugno 1953: la pubblicità si sente alla radio, appare sui manifesti e si materializza in queste strane macchine volanti che attraversano la carovana del Giro trasformandosi in spot di prodotti giganti e per certi versi mostruosi.
È il primo giorno del mese di giugno, dunque, quando il Giro guarda la vetta dello Stelvio. Preoccupato e un po’ incazzato. Il paesaggio severo e maestoso del massiccio dell’Ortles incute paura. La corsa è in mano a Hugo Koblet, Pettinino, lo svizzero belloccio che si pettinava in corsa. Coppi si è arreso. Almeno così pare. Anche perché il giorno prima aveva provato ad attaccare la maglia rosa. Sui tre passi, Falzarego, Pordoi e Sella, l’Airone aveva dato battaglia (con Pasqualino Fornara, uno delle tante vittime tre anni dopo della tappa sul Bondone, quella del trionfo di Charly Gaul, in mezzo a una tormenta di neve: Pasqualino si ritirò mezzo assiderato coperto solo dalla maglia e da una pellecchia che gli faceva da impermeabile) ma in discesa quel diavolo di Koblet l’ha riacciuffato. Come spesso accade nel ciclismo i due stringono un patto: Coppi si accontenta di vincere la tappa, la maglia resta allo svizzero. La corsa sta finendo, mancano solo due tappe: Bolzano-Bormio con lo Stelvio e Bormio-Milano. Coppi ha 34 anni, il sogno di vincere il quinto Giro come Binda sembra dissolversi (più avanti, anche Eddy Merckx se ne prenderà cinque di Giri). Il patto avrà vita breve.
Sul Corriere della Sera che esce il 2 giugno Orio Vergani descrive così il clima dopo la sconfitta del Campionissimo (da Caro Coppi, di Orio e Guido Vergani, 1995, Arnoldo Mondadori Editore): «La pelle dell’orso è stata venduta molte volte, fra ieri sera e stamane, alla borsa ciclistica. Fausto Coppi, a Bolzano aveva il suo quartier generale nel mio stesso albergo. Stava al mio stesso piano, in una camera saldamente vigilata dai suoi fidi… Nel corridoio andavano e venivano gli intimi, parlando a bassa voce, come si fa nell’anticamera di un malato grave… Musi lunghi, orecchie lunghe, non si contavano più. E qualcuno disse a bassa voce: “Sembra l’8 settembre…”». La vittoria è parsa a tutti misera cosa, la “corsa rosa” era dello svizzero. Lo stesso Coppi ha detto al suo avversario all’arrivo: «Per me il Giro è finito». E ai suoi fans che lo incitavano a dare battaglia sullo Stelvio il giorno dopo: «Domani è troppo tardi…».
Ma c’è chi ha visto il clan di Koblet festeggiare anzitempo fino a notte tarda. Scorrono fiumi di birra. Che piace anche al campione. Così la mattina seguente, qualcuno vuole andare a controllare le condizioni della maglia rosa. Milano, uno degli scudieri del Campionissimo, scatta addirittura una foto. È una trappola. Al via a Bolzano «Koblet firma autografi sereno e serafico. Ettore Milano, con uno stratagemma, gli chiede se può fare una foto. Lo svizzero porta un paio di occhiali da sole, ma Milano non si dà per vinto e grazie al fotoreporter Walfrido Chiarini, con la scusa di scattare una bella foto all’ormai certo vincitore del Giro, riesce a far togliere gli occhiali al bell’Hugo. Basta un attimo e Milano scopre due occhi stanchi e per niente belli, proprio come quelli di uno che ha passato una notte di bagordi. “Volevo guardarlo negli occhi” racconterà in seguito Milano, “perché gli occhi non dicono mai bugie”». Così parlano dell’episodio Ennio Doris e Pier Augusto Stagi, (il primo presidente del gruppo Mediolanum e amante del ciclismo e l’altro giornalista sportivo, molti anni fa lavorava all’Unità) in 100 storie e un Giro, un libro uscito in queste settimane, edito da Mondadori.
Milano, marito di Ada Cavanna, figlia del massaggiatore cieco del Campionissimo, dice a Coppi degli occhi di Koblet.
La corsa parte all’ora di pranzo. Ci sono vari scatti iniziali, Fiorenzo Magni ma anche gli uomini della Bianchi, la squadra di Fausto. Fuoco di paglia. Le cose cominciano a diventare serie ai piedi dello Stelvio. È Andrea Carrea, un altro degli uomini di Coppi, che tira e scappa. Coppi lo segue e Koblet segue Coppi. Poi l’Airone affianca Nino Defilippis, il “cit”, il bambino: «Te la senti di dare un colpetto? Mi faresti una cortesia. Cerca di sgranare il gruppetto», raccontava un po’ di tempo dopo, a Vergani e ad altri, il ciclista torinese. Mancano una decina di chilometri alla vetta dello Stelvio. «Sono partito. Ho preso 300, 400 metri. Hugo ha attaccato di presunzione. Ha cercato di riprendermi. Arrivato a 100 metri da me, non ce l’ha più fatta. Sgonfiato. Se fosse rimasto con gli altri, probabilmente avrebbe vinto il Giro. Invece mi è venuto dietro e si è piantato». Coppi capisce che è giunto il momento, il patto è in frantumi. Si alza appena sui pedali e va. Va, va. Sale come uno stambecco, le lunghe cosce che sembrano due stantuffi. Lo si vede oggi su Youtube, accompagnato da una stupida musichetta che fa da colonna sonora. La strada è sgombra di neve che si poggia invece sui prati ai fianchi.
Nella carovana c’è uno dei migliori fotoreporter italiani, Valentino Petrelli, detto Nino. Ha scattato foto di Mussolini e della Petacci, a testa in giù, a piazzale Loreto. È autore di straordinari reportage. Nel ’48 Arrigo Benedetti, grande direttore dell’Europeo e dell’Espresso e, alla fine, di Paese Sera, lo ha mandato in Calabria con il giornalista Tommaso Besozzi a raccontare la miseria, la fame e la disperazione di Africo, un centro vicino Reggio Calabria. È un racconto di immagini che sembra un film del neorealismo. Una denuncia dura delle condizioni del Sud. Adesso – sullo Stelvio – Petrelli intuisce che sta per succedere qualcosa di grandioso e allora parte con la moto in cerca di un fotogramma che dia l’idea dell’impresa. Vede un ramo di un albero per strada e l’afferra. Lo userà come una penna. Scende dalla moto e a fatica sul prato innevato scrive grande: «W Fausto». E aspetta. Coppi arriva di lì a poco, il fotografo quasi non riesce a finire la “o” di Fausto. Quando se lo ritrova addosso, Petrelli grida a Coppi: «Guarda là». Il Campionissimo gira appena la testa verso destra, rimane quasi stupito del «W Fausto». Tino ferma così un pezzo di storia del ciclismo e di un paese che sta tutto in quei tornanti. Un paese che ha pensato pure che quell’uomo dal corpo sgraziato, tutt’uno con la bici, fosse finito. Malinconico, solo. Un uomo che si sta innamorando della “dame en blanche”. Coppi che guarda il suo nome nella neve: anche così nasce una leggenda. Uno scatto appena appena un gradino sotto, per popolarità, a quello del passaggio della borraccia con Bartali.
L’Airone scende leggero verso il traguardo. Koblet cade varie volte. Non lo prenderà più, finisce a 3’ e 28” dal campione italiano, perde la maglia rosa. Dopo Coppi, a Bormio arrivano Fornara e Bartali. Coppi si aggiudica il suo quinto Giro, l’ultimo. «Non racconterò metro per metro, né chilometro per chilometro la storia della tappa» scrive Vergani. «È la storia d’una sola fatica vittoriosa: tradurla in cifre vale per documentarla, ma anche per immiserirla… Perché allineare cifre, là dove lo sforzo d’un cuore e la volontà d’un animo si misurano con i segreti numeri che, anche nel mondo più elementare, sono forse i numeri della poesia? Perché fare la computisteria di un muscolo vittorioso quando, in realtà, è un animo che vince?».
Il ciclismo è un misto di fatica, di retorica, di pozioni. Oggi come allora. Quando Koblet andò in debito di ossigeno molti pensarono alle sue crisi e alle “bombe” che prendeva. Coppi in questo era invece scientifico e attento. Lo svizzero si è bruciato troppo in fretta ed è durato poco.
Nel 1965, cinque anni dopo la morte del Campionissimo, il Giro decide di chiamare “Cima Coppi” la vetta più alta della “corsa rosa”. Lo Stelvio è stato Cima Coppi per varie volte (8 con questa edizione) dopo le gesta del ’53.