Incontro con Alessio Torino
Il Preludio di Tina
Un romanzo di formazione sospeso tra la nostalgia di un’innocenza passata e la ricerca di un ipotetico futuro. Un testo che suggerisce numerosi rimandi, alcuni sfumati, altri più evidenti all’autore. Come quello a Catherine Mansfield…
«La vita è anche il proprio autore. La vita è» chiosa Luzi in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. Condivide questo scorcio di eterno nel transeunte – a ben vedere assai lontano dal panteismo spinoziano, ma molto più addentro a una forma catartica di tempo spazializzato à la Bergson – Tina (minimum fax, 141 pagine, 14 euro), l’ultimo romanzo di Alessio Torino, nel quale la nitidezza dello stile raggiunge il suo cristallo. È la storia di una vacanza estiva a Pantelleria, dopo il dramma della fine dell’unità familiare. La natura selvaggia dell’isola sembra rimandare alla nostalgia di un’innocenza perduta nel passato e ricercata nell’ipotetico futuro, una specie di “tensione” sempre in agguato, che però fugge via e non lascia mai agguantarsi. «Si girò per guardarlo, lui o almeno il puntino della sua sigaretta, ma la notte dietro e sopra le sue spalle lo sovrastava. In quella notte il babbo e la mamma non si erano mai sposati. In quella notte lei e Bea non erano mai esistite. Era quella, la felicità più grande. E la Sfinge lo sapeva». La difficoltà del vivere piomba con tutti i suoi crismi e le sue storture, sino a squarciare il velo delle lacerazioni. In Vecchio amore Isaac Singer dichiara: «La vita è il carro di Dio e la morte è solo l’ombra della Sua frusta». Torino dimostra di possedere quella vena lirica che solo un innamorato della dignità umana può esibire. «L’essere umano è sacro – confida, forse citando Simone Weil – per lo stesso motivo che esiste».
Perché un personaggio femminile? E in che rapporto è con i protagonisti dei precedenti romanzi?
«Già in Urbino, Nebraska era presente la prospettiva femminile con la storia di Zena Mancini. Avevo voglio di continuare su questa strada, di scrivere qualcosa di totalmente altro da me. E questo vale non solo per il personaggio principale, Tina, ma anche per l’ambientazione a Pantelleria, un’ isola bellissima che conosco abbastanza, ma con cui non ho certo l’intimità che ho con Urbino o con alcuni luoghi dell’Appennino umbro-marchigiano».
La scelta del tema rimanda, tra le righe, a Roth in Pastorale americana? C’è, in generale, un modello narrativo? Penso a Franzen, Bolaño, Israel Singer…
«Credo che sia difficile parlare dei propri modelli con lucidità. Capire cosa ti influenza davvero in letteratura è difficile come capire chi ti ha influenzato davvero nella vita. Chi può saperlo con certezza? Temo che i veri modelli restino sempre in parte nascosti, calati in un fondo da cui noi possiamo farli emergere solo con molta fatica. Poi è anche vero che uno scrittore non può essere del tutto inconsapevole – almeno si spera! – per cui, mentre scrivevo il romanzo, mi rendevo conto che stavo scrivendo la stessa storia, per così dire, di Tetano, il mio secondo libro, cioè una storia di bambini selvatici colti in un momento di passaggio crudele. Date poi l’ambientazione e certe caratteristiche comuni, ho sentito che dovevo andarmi a rileggere Agostino e l’ho riletto. È strano, ma la cosa che mi ha colpito di più nel rileggerlo, non è stato quanto il libro di Moravia poteva darmi nei suoi tratti essenziali come l’iniziazione, la presenza del mare, eccetera. No, di Agostino mi ha colpito soprattutto la scrittura in sé. In questo romanzo, che per me è il più bello di Moravia, c’è un’energia di scrittura che non si interrompe mai dalla prima all’ultima parola, il che significa che non c’è niente di superfluo. Per finire di rispondere sui modelli, se proprio dovessi citarne alcuni, ritengo che la costruzione di Tina abbia in realtà qualcosa di ottocentesco, penso al tempo di maturazione delle storie in certi romanzi brevi di Turgenev come Primo amore o nei maestri francesi delle cento pagine».
In effetti, si percepisce – più che uno stile – un’atmosfera cechoviana. Mi riferisco a Il duello, ad esempio. Si avverte, non solo nelle relazioni, ma anche nella natura stessa un senso di colpa universale, un luogo di separazione, il «giardino del dolore» leopardiano.
«È un sentimento ambivalente, quello della natura. Può schiacciare l’essere umano ricordandogli la sua mortalità, tanto quanto attrarlo verso un altrove e farlo sentire infinito. Può abbandonarlo o farlo vivere in un unico respiro, in un solo essere. Per me era importante che ci fosse questa oscillazione. Così come era importante che ci fosse per tutto quello che riguarda la rottura dell’unità familiare. Attraverso questa crepa si insidia una nuova idea di mondo, distante, anzi incompatibile, con l’immagine che Tina si era costruita. Ma insieme alla paura che passa tra i frantumi delle vecchie convinzioni, si insidia anche una forte e strana attrattiva per il futuro. E questo è a livello psicologico il segno che una personalità si sta formando».
Il padre avrebbe voluto chiamare Tina e Bea come le protagoniste di Preludio di Catherine Mansfield. È visibile in filigrana un intertesto?
«Sì, in Preludio ci sono appunto atmosfere cechoviane e l’episodio dei nomi può essere senz’altro una chiave di lettura, un fiume carsico, un sottilissimo filo che spererei legasse le due storie. Però quest’episodio ci fa soprattutto scoprire una parte di quest’uomo, il padre di Tina, che non sembra del tutto consapevole del mondo che lo circonda, o, peggio, non sembra esserne interessato. Chiamare le proprie figlie Kezia e Lottie, cioè con i nomi lontani di due personaggi letterari… ma che egoismo è? Che arrogante mancanza di buonsenso? Eppure neanche lui è davvero condannabile. Perché è un uomo che cerca la felicità nella musica e in una nuova relazione, sta facendo un percorso di verità che crea dolore in chi lo circonda. Nessuno può tracciare una riga di confine precisa tra la giusta e doverosa ricerca della felicità e l’egoismo. Tutto questo nel romanzo è vissuto attraverso gli occhi di Tina che sembra subire e al tempo stesso capire ogni cosa».
Cosa rappresenta il gesto finale di Tina e che indicazione dà rispetto alle parole della Sfinge di Edipo?
«Il finale è completamente del lettore. Alla domanda della Sfinge – “qual è la cosa più felice per un essere umano?” – il libro dà diverse risposte. Lo stesso Charles che inizialmente propone la risposta nichilistica “non essere mai nati”, ci torna poi sopra con “conoscere Tina”: sceglie cioè la vita, l’esserci, la presenza».
I volti e i caratteri dei personaggi appaiono “sfumati”, come nei quadri di Edouard Cortès. È una via diversa per conferire maggiore identità?
«Quello che ho fatto con i personaggi è stato aspettarli. Aspettare la loro luce e la loro ombra, in altre parole, le loro contraddizioni. C’è qualcosa di imperscrutabile negli esseri umani, qualcosa che non ci permette di inserirli in un asse cartesiano o di spiattellarli su una carta millimetrata. Come è visibile una parte, così l’altra resta nascosta. L’interiorità è tutta forme irregolari. La madre di Tina, ad esempio, un momento può sembrare troppo arrendevole, ma il momento dopo diventa la persona più solida tra tutte quelle del microcosmo dell’isola. Così Charles, che a tratti è un uomo in caduta libera, poi un baluardo di umanità, di amicizia, di calore. Vale lo stesso per tutti i personaggi principali che alternano su sé stessi la maschera di depositari del passato con quella di scardinatori del presente, quella dei restauratori con quella degli incendiari».