La Domenica: itinerari per un giorno di festa
Per la rinascita della città che muore
450 mila turisti visitano ogni anno Civita di Bagnoregio, un borgo incantato del Lazio che rischia di sparire, costruito com'è su una rupe che frana. Ora un Appello chiede aiuto all'Unesco
Il rimpianto, la separatezza, la malinconia, l’ascesi. Civita di Bagnoregio suscita sentimenti e riflessioni attorno a questi quattro grumi. Ed è l’inveramento della suggestione dei borghi d’Italia più snidati dagli stranieri che frequentati dagli italiani. L’agglomerato che subito riporta al santo medievale – Bonaventura, nato in una delle poche case di qui – paradossalmente deve la fama alla propria sfortuna. Gli edifici medievali, le chiese poggiano su una rupe che frana. Pesano su un terreno unico, e fragilissimo. Civita è come una corona posata in bilico sulla testa di un re. Esaltata e condannata dai “calanchi”, i solchi scavati tutti intorno da due torrentelli che fanno sbriciolare l’argilla su cui si erge il paese. Il Tevere e il lago di Bolsena sono vicini, il borgo – fondato attorno al 2500 avanti Cristo dagli Etruschi e poi romano, e poi fiero comune, infine nell’orbita soffocante dei Monaldeschi e del Papato – prosperò proprio per essere al centro di vie di commercio.
Ai primi segni di cedimento del terreno seguirono due terremoti, a fine Seicento e cent’anni dopo. Civita comincia a liquefarsi, perde il ponte naturale che la collega al resto di Bagnoregio. Le case rinascimentali con i balconcini che fanno scorcio pittoresco, le scalette esterne chiamate “profferli” traballano. Le famiglie scappano. Per questo Bonaventura Tecchi, lo scrittore nato qui, la chiamò «la città che muore». Più volte si è tentato di arginare il peggio. Quattro anni fa una convenzione tra il Comune e l’università di architettura di Venezia prospettò studi per operazioni di risanamento e restauro elaborati dagli studenti della Laguna. E si progettarono rassegne culturali da affiancare a un festival cinematografico estivo specialissimo, l’unico dedicato a film e motori. Come ne La strada di Fellini, nel quale il furgone di Zampanò e Gelsomina caracolla sui calanchi.
Ma la rinascita non è venuta, anzi lo stato di salute del borgo è peggiorato. Frane negli ultimi mesi, una pochi giorni fa. Sicché martedì scorso è stato lanciato un “Appello per salvare Civita di Bagnoregio e la Valle dei Calanchi” e chiederne il riconoscimento come sito Unesco. Il primo dei trentaquattro sottoscrittori è stato il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Lo hanno seguito, tra gli altri, il ministro per i Beni Culturali Franceschini e poi Ennio Morricone, Giuseppe Tornatore, Andrea Camilleri, Michelangelo Pistoletto, Dario Fo, Dacia Maraini, Bernardo Bertolucci. L’iniziativa è stata presentata dal presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti nella sede di “Civita”, l’associazione di imprese a salvaguardia del Bel Paese intitolata nel 1987 dai fondatori, Gianfranco Imperatori e Antonio Maccanico, appunto alla “città che muore”. E che invece deve vivere, come testimonia il record di turisti: 450 mila l’anno a fronte di 4 mila abitanti, tra i quali nessun disoccupato, ha quantificato il sindaco di Bagnoregio Francesco Bigiotti.
Il logo dell’associazione rimanda, con lo slancio di dieci linee scure, all’impennata della rupe che regge il borgo. La primavera dona effetti speciali al posto. L’umidità che sale più in fretta, generata dal caldo del giorno, avvolge la valle e all’alba fa apparire il paese come poggiato su una nuvola. Anche l’unico contatto con il resto del mondo – il ponte lungo 300 metri, stretto stretto, riservato a chi va a piedi – sembra sospeso, come una liana gettata dall’abitato di Bagnoregio a Civita. In realtà c’è un’altra via per uscire dalla rocca: il “Bucaione”, un passaggio che risale al periodo più antico. Collega direttamente il paese con la valle e rimanda all’urbanistica degli Etruschi, alla necropoli con le tombe a camera. Una di queste, scambiata per grotta, fu lo scenario nei primi decenni del Duecento di un miracolo: un bambino ammalato sarebbe guarito dopo le implorazioni rivolte dalla madre a Francesco d’Assisi, morto pochi mesi prima. Il piccolo si chiamava Giovanni Fidanza, sarebbe diventato anche lui santo, oltre che filosofo, con nome augurale di Bonaventura. Di un altro prodigio, avvenuto nel 1499, ha memoria Civita: da un croce di legno ancora conservata nella chiesa di San Donato la statua di Cristo parlò a una donna che ogni giorno pregava chiedendo la fine della peste. L’epidemia si fermò subito dopo le rassicurazioni del Salvatore e la morte della pia. La leggenda rivive ogni anno, il Venerdì Santo, quando il Crocifisso viene deposto in una bara e portato in processione. Civita respira misticismo. E incanta.