Omaggio a un maestro da non dimenticare
Il ‘900 di Missiroli
Beppe Navello, per anni suo assistente, racconta la genialità e l'umanità di Mario Missiroli, il grande regista appena scomparso. «Vi spiego perché è stato uno dei maggiori poeti civili del Novecento»
Mario Missiroli è stato un uomo elegante: di un’eleganza indipendente e libera, mai subalterna alle mode, mai troppo classica. Parlo di eleganza personale, quella quotidiana di cravatte ben annodate, di abiti di buona fattura, di ascolto di musica selezionatissima e di letture mai banali, di gesti e di modi: e quindi, le varie contemporaneità con le quali è stato costretto a vivere attraverso metà del Novecento e un quindicennio supplementare, lo riempivano di stupore collerico e di insofferenza sarcastica per la loro volgarità. Come accade a tutte le anime contaminate dall’arte, la insolubile divaricazione tra aspirazioni dell’intelligenza e costrizione della realtà, lo faceva soffrire atrocemente e assolutamente: non amava il paese nel quale si era ritrovato a vivere perché era un paese ridicolo e vile, un paese irriducibilmente fascista, diceva; in particolare, quella parte d’Italia dove era nato e dove era cresciuto e aveva studiato, la Lombardia operosa e morale, lo riempiva di irritazione: tant’è vero, diceva, che si era inventata «prima Mussolini, poi Craxi, poi Berlusconi e infine Bossi». E, soprattutto non era disposto a conciliature per sopravvivere: amicizie saldissime passate per vari motivi dall’altra parte, se non le aveva mai rinnegate per ragioni di affetto, le aveva certamente messe in sonno, le aveva sottoposte al supplizio di lunghe distanze; ho assistito a qualcuna delle sue proverbiali litigate su argomenti politico culturali dopo le quali finiva per andarsene sbattendo la porta se era ospite in casa d’altri o sbattendo fuori della porta l’ospite se era a casa sua.
Tutto questo non c’entrerebbe niente se non fosse che il suo teatro era proprio come lui. Tra il suo stile di palcoscenico e il suo umor nero, c’erano allegre consonanze: allegre perché nutrite di intelligenza critica, di autoironia, di sarcasmo nei confronti della stupidità. E il teatro gli era sembrato, fino a un certo punto, l’esercizio più alto ed efficace di rappresentazione della società, come nelle grandi civiltà europee, quella francese o inglese o tedesca o anche di certi paesi dell’Est. «Ma mi sono illuso presto», diceva sorridendo: «l’Italia non è civiltà europea». Però gli anni Sessanta e Settanta, prima a Milano e poi a Roma, li ricordava come un’epoca di speranza. E di illusione finita presto, appunto. Ma soprattutto il palcoscenico lo divertiva come nessun’altra cosa al mondo, un gioco perverso e crudele di sopraffazione dove esercitare la sua bulimia gnoseologica di tipi, caratteri, tic e espressioni facciali rubati alla realtà: ricordava modi di pronunciare o gesticolare di personaggi illustri e meno illustri conosciuti durante la sua vita, ne deformava ed esasperava ulteriormente i suoni e i colori verso approdi gioiosamente grotteschi e ne faceva, insieme agli attori, personaggi indimenticabili. Le prove, proprio perché gli piacevano molto, duravano a lungo ed erano spettacoli di sulfurea intelligenza con esercizi prolungati di sadismo: si protraevano fino all’alba, tra secchi d’acqua dove galleggiavano almeno una cinquantina di mozziconi di sigarette (rigorosamente Gitanes senza filtro nella loro meravigliosa scatola azzurro Francia che compravamo ogni mattina dal tabaccaio di via Rossini, tre scatole da venti solo per lui, io non ho mai fumato), il whisky preferito, Ballantine’s (la bottiglia da 70 cl, anche quella ricomprata ogni giorno) che anni dopo avrebbe campeggiato in decine e decine di esemplari nella scenografia del suo bellissimo Chi ha paura di Virginia Woolf? all’Eliseo di Roma: un omaggio al nutrimento dell’anima poetica che lo ha accompagnato tutta la vita.
Ho avuto la fortuna di essere suo assistente tra il 1977 e il 1981, lavorando, al Teatro Stabile di Torino, a una sequenza leggendaria di creazioni che hanno segnato la storia della regia italiana: Don Giovanni, Zio Vania, Verso Damasco, La Duchessa di Amalfi, I Giganti della Montagna, Les bonnes, Musik con attori come Anna Maria Guarnieri, Gastone Moschin, Monica Guerritore, Giulio Brogi, Paolo Bonacelli, Gianni Agus, Glauco Mauri, Adriana Asti, Manuela Kustermann, Gabriele Ferzetti, Copi, Quinto Parmeggiani, Gianna Piaz, Graziano Giusti, Cesare Gelli, Claudio Gora, Pina Cei e ne tralascio altre decine di altrettanto importanti; tutti tiranneggiati, tutti torchiati fino allo spasimo e tutti adoranti il Maestro. Perché c’era sempre, in quelle lunghe sessioni di ricerca, l’aspirazione a non rappresentare il mondo così come si vede o, meglio, si crede di vederlo ma a darne una visione più distorta, più sofferta, più impervia: attraverso la recitazione e anche la raffigurazione scenografica, spaziale; quelle anguste abitazioni-gabbie come in Zio Vania, quel malfermo pavimento basculante di Musik; quei declivi di legno o di acciaio, di Verso Damasco o de I Giganti sui quali si tenevano abbarbicati in modo precario i nugoli di attori che andava a pescare con ricerche accurate tra i vecchi sopravvissuti delle compagnie di giro d’anteguerra; e che diventavano l’umanità dolente e reumatica, lamentosa e però supponente dell’universo sociale patrio, che lo innervosiva e insieme lo divertiva irresistibilmente: la “Missirolìa”, secondo la definizione di Ripellino che gli piaceva tanto. E’ stato anche, soprattutto in un tempo successivo a quello in cui abbiamo lavorato fianco a fianco, scrittore in proprio, drammaturgo e poeta, con esiti felicissimi (Tragedia popolare è il suo dramma, guarda caso, sulla tragedia italiana del fascismo): ma posso dire con assoluta certezza per averne parlato con lui nell’autunno scorso) che quella che sentiva come la sua vera scrittura, il suo vero strumento espressivo era la scrittura della scena, la regia. Prendere un testo, evincerne una lezione personale, contemporanea e fargli vivere una nuova vita artistica rendendolo necessario e attuale: è l’invenzione del Novecento, una forma mai vista prima di arte, oggi probabilmente già morta.
Diceva ancora di non essere un Maestro, di non voler insegnare nulla: i suoi allievi, al massimo, potevano cercare di rubargli il mestiere. Per questo, sono diventato un efficientissimo ladro: e quando ho cominciato a firmare regie, ho inseguito in autonomia scaramantica autori che lui detestava, Ibsen per esempio e Alfieri, da lui definito un predicatore moralista. Negli ultimi sette/otto anni ci siamo ritrovati entrambi stabilmente a Torino e lui è diventato un affettuoso, assiduo frequentatore del mio teatro, in particolare dei miei spettacoli. Quando l’anno scorso è venuto a vedere Il divorzio di Alfieri con dodici giovani attori in scena (ero molto preoccupato), alla fine mi ha detto se gli consentivo di dire che era uno spettacolo missiroliano: e mi sono commosso. Poi ha voluto incontrare i ragazzi, ha cominciato a parlare e si è commosso lui, il sulfureo, irriverente eversore di testi classici. Allora ho capito finalmente chi era Missiroli e qual era il suo posto nella storia del teatro italiano del Novecento: quello dell’unico forse, vero poeta civile del nostro palcoscenico contemporaneo, che sentiva e partecipava di un pathos politico altissimo. Come il conte astigiano a Firenze sbatteva la porta in faccia agli occupanti francesi che smaniavano di conoscerlo, lui non poteva più trovare spazio nella pochezza dei tempi presenti. Ma aveva ancora molto da dire ai giovani e alla loro passione per la libertà e la verità.