Il confine tra arte e filosofia
L’anima in foto
«Si può creare un'immagine da qualcosa che è astratto, mitico, eroico, emotivo?». è la domanda dalla quale parte il lavoro di Elizabeth Heyert, grande firma di “New York Times” e “Vogue”, oggi votata solo alla sperimentazione
Lo studio di Elizabeth Heyert a Chelsea, nella zona degli artisti di New York, è un loft spazioso e accogliente con vista sul fiume. Essenziale, con un tavolo e poche sedie. Al centro campeggia la sua macchina fotografica, quella con cui lavora ormai da decenni. La stessa con cui sta completando il suo ultimo progetto, THE BOUND: una vintage Deardoff 8×10. Elizabeth Heyert è una fotografa di rinomanza internazionale. Nata a New York ha studiato fotografia al Royal College of Art Londra con Bill Brandt e si è affermata lavorando con il New York Times, il New York Magazine, Vogue, Elle Décor, e l’Architectural Digest. Tra i suoi clienti più famosi si contano Ralph Lauren, Cartier, American Express e Tiffany.
Minuta ed elegante ha una voce gentile e un sorriso comunicativo. I suoi occhi sono pungenti, ma non giudicano, osservano con un’attenzione intensa che coglie ogni minimo particolare e allo stesso tempo non è invasiva. Proprio come la sua arte. Quando spiega il suo lavoro traspare la passione e allo stesso tempo l’originalità che l’ha sempre guidata anche nei suoi lavori più commerciali, prima cioè di diventare un’artista libera di sperimentare con la sua macchina fotografica. La sua carriera di grande successo le ha permesso infatti a cinquanta anni di chiudere il suo studio commerciale e di dedicarsi a quella che definisce una «sua più personale immagine della fotografia» e di sperimentare «forme non convenzionali di ritratti fotografici». In pochi anni ha prodotto una trilogia di grande valore.
Ha cominciato con THE SLEEPERS che ha debuttato alla galleria Edwyn Houk di New York nel gennaio 2003. Questa è una collezione di nudi di persone addormentate a cui l’artista ha cominciato a lavorare nel 1998 e concluso un anno dopo. Iniziato con l’idea di fotografare amici durante il sonno il progetto si è poi trasformato in qualcosa di diverso. I corpi sono divenuti nudi e l’essere testimone dell’atto del dormire ha fatto sentire l’artista un outsider che spiava l’intimità di altri. Qualcosa che le ha fatto mettere le foto dei suoi corpi addormentati in una scatola. Non li voleva più mostrare in giro. «Non so perché. Mi sono sentita come un voyeur, come se avessi fotografato qualcosa che non dovevo vedere proprio perché quel qualcosa era nudo in tutti i sensi. Ma adesso capisco che era troppo facile. Avevo comunque prodotto un documento La gente era attratta dai dettagli carnali: è così che appare una persona grassa quando è completamente esposta? Era facile per l’osservatore, ma non per il soggetto di tale attenzione. Erano, potremmo dire, fotografie letterali che producevano questa emozione, ma questa emozione si perdeva nelle forme dei corpi». Poi improvvisamente in pochi mesi la morte di ambedue i genitori le impedì di fare qualsiasi fotografia e di lavorare al progetto. Però qualche tempo dopo la morte della madre, Heyert riguardò le sue fotografie, facendone delle nuove che ritraevano teste di donne addormentate. «Non so come è nata l’idea, ma ho deciso che volevo proiettare le immagini di queste teste su una parete, su un muro di pietra e successivamente fotografare queste immagini. Così sono andata in Toscana, ma purtroppo c’erano dei grossi cardini metallici sulle pareti: questi apparivano sui volti e li rendevano brutti. In più c’era troppa luce ovunque. La cosa che però ho scoperto in quell’occasione è stata che la pietra ha un significato. Che ha una vita appassionata, come la pelle della gente vecchia. La mancanza di temporalità della pietra echeggiava l’emozione delle figure, ma faceva dimenticare la loro specificità , e le rubava al personalismo». Un senso della mortalità che ad Heyert sembra sempre essere stato presente anche se non in maniera cosciente.
La Sicilia le ha fatto trovare a Poggioreale, piccolo paese abbandonato dopo il terremoto del 1968, il luogo perfetto per proiettare queste immagini. Così i volti e i poi i corpi che prima avevano una superficie apparentemente levigata acquistavano una patina di antichità che sembra uscita dagli affreschi etruschi. «Era qualcosa che proteggeva queste figure e restituiva loro le emozioni. Sentivo che lì erano sicure, salve… Erano come delle maschere di morte che allo stesso tempo rappresentavano una sorta di fotografia delle trasformazioni… La prima di esse era proprio quella del sonno in se stesso e di come le persone cambiano talvolta radicalmente in quella condizione inconscia». Il secondo set di trasformazioni avveniva quando proiettate sul muro «si trasformavano in una sorta di immagine psicotica di un sé diviso, di un sé vicino ad un altro». Questo si vede bene, ad esempio, secondo Heyert , nel nudo di Aviva, una donna extralarge che nella fotografia originale appariva leggera; sulla parete invece diventava una forza. Le sue forme, il suo gesto di tendere la mano che prima restituivano un’immagine rilassata del riposo, adesso sulla parete acquistavano un nuovo potere, una nuova tensione. Diveniva una dea mitologica. Allo stesso tempo questa serie di fotografie riportava in primo piano l’oggetto e il fine della fotografia.
«La fotografia – afferma Heyert – non è mai completamente fictional. Tuttavia quello che è venuto fuori da questo esperimento è astratto. La domanda che ci si pone allora è: si può creare un documento da qualcosa che è astratto, mitico, eroico, emotivo? Questo è quello che mi interessa nella fotografia». Ma se alcune di esse, specie i volti delle donne addormentate, si possono definire maschere di morte consegnate all’eternità, cosa c’è sotto quella superficie? Questo sembra essere il tema della seconda serie della trilogia intitolata THE TRAVELERS del 2005: un insieme di ritratti post mortem che restituisce la parola a coloro che l’hanno perduta per sempre. Le sue fotografie, descritte dal New York Times come «uno sguardo non in superficie alla faccia vibrante, viva che esiste sotto la maschera della morte», sono infatti il frutto di una rivisitazione di persone decedute, vestite a festa, truccate e pronte a varcare la soglia di questo mondo per entrare in uno nuovo. Per Heyert, che si definisce atea, il problema, come era accaduto in precedenza anche per THE SLEEPERS, è di sapere dove si va una volta che si lascia la coscienza o, come nel caso dei morti, dove si finisce quando non si è più persone.
«Ero cosciente che stavo fotografando una comunità di persone che non erano più tali, un pezzo scomparso di storia culturale. Alcune di loro avevano lasciato una vita brutale nel periodo della depressione nel sud e si erano trasferite ad Harlem portando con loro molte delle tradizioni religiose di quelle zone. Persone più giovani erano nate e morte ad Harlem, ma erano state sepolte secondo il vecchio stile, vestiti come per andare ad una festa. Con Harlem che cambiava rapidamente queste tradizioni si stavano perdendo. Spero che le mie fotografie raccontino in piccola parte la storia di una generazione passata e del loro modo di morire». Anche in questo caso i ritratti di Heyert hanno a che vedere con l’intimità che si viene a creare con persone che non possono ormai più rispondere, ma che invece di costituire un feticcio in balia dell’artista esercitano un potere di attrazione e di conquista del suo sguardo. «Sono alla loro mercé, loro non possono rispondere ed io sono sola, ma ho sentito dell’affetto per loro specie per i morti, cosa che invece mi è riuscita più difficile con il terzo progetto THE NARCISSISTS».
Quest’ultimo progetto del 2009 infatti è composto di trittici di ritratti di persone allo specchio. I personaggi di THE SLEEPERS e THE TRAVELERS non si misuravano con nessuno tantomeno con l’artista vista la loro condizione o inconscia o priva di vita. Pertanto l’artista si è chiesta cosa accade quando si mette di fronte a persone coscienti che si guardano allo uno specchio. Il problema era che mentre per THE SLEEEPERS e ovviamente per THE TRAVELERS la presenza dell’artista non influenzava i soggetti presi in esame in questo caso comportava dei problemi. «Allora – afferma Heyert – ho cominciato a pensare al narcisismo e a cosa significava la mia presenza». Gli scatti della macchina fotografica avvenivano quasi di nascosto attraverso un buco nella parete all’insaputa dei soggetti ripresi. Ed Heyert di nuovo si sentiva come una persona che spia ciò che non dovrebbe vedere. Ma sentiva anche il peso della sua invisibilità ed del fatto di essere emotivamente assente. Infatti invece di provare, come in passato, affetto per i soggetti che fotografava, sperimentava una sensazione di paura per l’essere in compagnia di narcisisti. «Di solito quando si guarda un ritratto si comincia dalla superficie per poi coglierne il lato più intimo. Qui avveniva il contrario: questi soggetti che sembrano colti nella loro intimità perché abbassano la guardia, sono nudi emotivamente e qualche volta anche fisicamente, non guardano l’osservatore, ma solo se stessi… Il narcisismo è parte di quello che ci rende umani, è essenziale, ma può diventare anche molto sbagliato».
Il tema che accomuna questi tre progetti è l’idea «di avvicinarsi ad un mondo nel quale non saremo mai capaci di entrare. La fotografia apparentemente registra la realtà. Io la uso per fare qualcosa che non dovrei, per registrare qualcosa che non è in superficie. È un falso mito che la macchina fotografica non menta: non c’è verso di registrare la realtà in situazioni come queste. Non sappiamo mai quello che è falso o vero. Ma mentre con THE SLEEPERS si era invitati dentro il loro mondo qui (THE NARCISSISTS) non sei davvero invitato: il loro mondo non ti ammette, nessuno ti guarda negli occhi. I soggetti con cui mi sono sentita meno sola sono stati i morti. Non ponevano un veto emotivo che mi escludeva. Ho sempre pensato che il fotografo fosse un outsider, ma adesso so che lo è anche l’osservatore». I corpi che sono ritratti in tutti e tre i momenti della trilogia diventano luoghi di sperimentazione e di trasformazione e trasmettono un’ambiguità che non dà mai all’osservatore la sensazione precisa di sapere esattamente cosa sta guardando. Allo stesso tempo riflettono una vulnerabilità che è parte del nostro esistere.
E questo è anche il tema che attraversa l’ultimo progetto ancora in progress di Elizabeth Heyert THE BOUND del quale ella stessa afferma: «Il mio nuovo progetto riguarda una sottocultura di persone che si fanno mummificare con fasce intorno a tutto il corpo o magnificamente avvolgere da corde. Non vedo questo lavoro come una sorta di feticismo tuttavia. Gli strati vanno sempre più in profondità e riguardano la fiducia, la vulnerabilità la sicurezza, la dipendenza, il bisogno artistico ed emotivo: in una parola la vera natura dell’intimità. Riguardano più che altro la complessità dell’uso del nostro corpo ed il suo uso come luogo di sperimentazione e di trasformazione». Una complessità che non appare ad occhio nudo: «siamo vulnerabili e potenti allo stesso tempo». Ma che la sua macchina fotografica riesce a catturare.